
QUANDO: Pranzo di Natale.
DOVE: Casa di mia zia Franca.
CHI: Io, mia moglie Miriam, i miei genitori, i miei fratelli Barbara e Marco, mia cugina Angela e mia cognata Irene. Oltre, ovviamente, a mia zia.
Zia: “Avete sentito del volo diretto per Londra che hanno messo dal nostro aeroporto? Sembra che i biglietti li regalino!”
Io: “Si, bisognerebbe approfittarne”
Zia: “Allora approfittiamone! Io non ci sono mai stata”
Io: “Sarebbe carino. Ma quando?”
Zia: “Subito. Informati oggi stesso. L’albergo lo pago io”
Io: “… Per tutti?”
Zia: “Si, per tutti. Una volta nella vita voglio fare un viaggio con tutta la famiglia riunita”
Io: “Sarà fatto!”
PartenzaE’ difficile da credere, ma dopo appena dieci giorni, siamo tutti in aeroporto. Riuscire a coordinare gli impegni di nove persone in così breve tempo sembrava un’impresa disperata, ma la frase magica “l’albergo lo pago io” ha compiuto il miracolo.
Conosco bene Londra. Ci sono stato molte volte, ma questa è diversa. C’è la mia famiglia al completo. Sarà terrificante. Sarà bellissimo.
Manca un’ora alla partenza ed i miei genitori sono in aeroporto già da un’ora e mezza. Mia madre non prende l’aereo da trentacinque anni ed è terrorizzata dall’idea di perderlo. Mentre mio fratello provvede a illustrarle le differenze tra un velivolo ed un autobus, comincio a raccogliere il gruppo per guidarlo verso il check-in, ma mi accorgo con una certa inquietudine dell’assenza di qualcuno.
La zia Franca, naturalmente.
“Dov’è tua madre?” chiedo a mia cugina, ostentando finta indifferenza.
“Non lo so. Mezz’ora fa mi aveva detto che stava arrivando”
La risposta non mi tranquillizza, così lascio a mia sorella il compito di espletare le pratiche per il gruppo e mi fermo ad attendere la zia.
Finalmente, dopo un quarto d’ora, quando il panico comincia già ad assalirmi, la vedo superare le porte di vetro dell’entrata.
“Ho perso l’autobus e ho dovuto chiamare un taxi” mi dice con il fiatone.
Entriamo di corsa e davanti al controllo elettronico mio padre è ancora fermo a discutere con un poliziotto. Al di là della barriera tutto il resto del gruppo osserva tra il divertito ed il preoccupato.
“Che fai lì? Pensavo foste già entrati” gli chiedo incuriosito.
“Non voglio passare sotto quel coso, ho paura per il mio pacemaker” è la sua lapidaria risposta.
Interpellato il poliziotto, vengo a sapere che la cosa non gli è mai capitata finora e non sa come comportarsi. Dopo alcune telefonate e la visita del suo superiore, riusciamo a risolvere il caso pacemaker con una semplice perquisizione manuale.
Intanto, però, in virtù della spietata legge del low-cost, per la quale ‘chi primo arriva, meglio alloggia’, gli altri passeggeri si sono ormai tutti imbarcati e dobbiamo accontentarci degli ultimi posti rimasti.
“Non soffrirò il mal d’aria qui dietro?” azzarda la zia, che viene fulminata da otto sguardi glaciali.
Il decollo dell’aereo è un primo sorprendente successo, che mi godo con un certo compiacimento.
Il volo è nella norma, ma, giunti nei pressi della nostra destinazione, una spessa coltre di nuvole copre ogni visuale e fa sussultare in modo fastidioso l’apparecchio. E questo non è bene.
Prima di partire avevo telefonato ad una mia cara amica che vive a Londra per chiederle che tempo facesse. Da noi aveva nevicato ed eravamo tutti un po’ preoccupati.
“Qui fa molto freddo, ma non c’è problema. A Londra non nevica mai!” era stata la sua rassicurante risposta.
Ovviamente, sull’aereo il pilota ci informa che atterreremo a Stansted con mezz’ora di ritardo perché … stanno finendo di liberare la pista dalla neve.
Mia sorella, l’interprete del gruppo, incautamente traduce ad alta voce le sue parole, scatenando la reazione della parentela nei miei confronti.
I quaranta minuti di treno, occorrenti per arrivare dall’aeroporto in centro, trascorrono in un baleno. I componenti del nostro variegato gruppo, chi per un verso, chi per un altro, sono emozionati ed io, che passo il tempo guardando affascinato l’insolito spettacolo della città innevata, ho un motivo di apprensione del quale non ho ancora fatto partecipe nessuno. L’hotel che ho prenotato, infatti, è un ‘saldo’ post-natalizio, del quale non ho referenze certe, scovato da un agente di viaggio mio vecchio amico, che spero vivamente mi consideri ancora tale.
Arrivati in stazione, ci aspetta ancora un tratto in metropolitana durante il quale riusciamo a non perderci, cosa che viene salutata da tutti come un evento insperato. Visibilmente soddisfatti, usciamo all’aria aperta, restando paralizzati all’istante.
“Fa freschetto, eh!?” ironizza mia zia mentre infila in testa un colbacco russo che aveva finora tenuto nascosto.
In realtà è in corso una vera e propria tormenta di neve e c’è un freddo polare!
Prestando molta attenzione a dove mettiamo i piedi, tra neve e lastre di ghiaccio, raggiungiamo l’hotel. Non sembra male. E anche la zona è carina. Si trova proprio di fronte ai Kensington Gardens. Per ora sono salvo.
I miei genitori sono un po’ stanchi, il programma però è implacabile. Tra mezz’ora dobbiamo essere in centro. Naturalmente è un’illusione. Mia zia, infatti, non soddisfatta della propria stanza, trova il modo di impiegare quasi un’ora in una discussione a gesti con il portiere dell’albergo.
Alla fine la spunta lei (non c’era da dubitarne), ma quando riusciamo a metterci in marcia, tutti i negozi stanno chiudendo le saracinesche. Non ci resta che una puntata per le foto di rito a Piccadilly Circus illuminata, quindi decidiamo di andare a cena, riservando le forze per il giorno seguente.
Quest’ultima, apparentemente banale, operazione, tuttavia, per il nostro numeroso ed eterogeneo gruppo diventa subito un compito piuttosto complesso. Così, dopo esserci diretti a Soho, quartiere ad alta densità di locali, diamo vita ad una penosa ‘via crucis’ tra un ristorante e l’altro. Il desiderio comune sarebbe quello di mangiare qualcosa di insolito, ma non riusciamo a trovare un accordo soddisfacente. Il cinese piace a mia sorella, ma non a mia madre. Il greco incontra i favori di mio padre, ma non di mia zia. Il pub inglese entusiasma mio fratello, ma non mia cognata, e così via. Dopo aver passato in rassegna tutto il panorama gastronomico mondiale, stanchi ed infreddoliti, cediamo in modo ignominioso e ci infiliamo nel primo ristorante italiano che incontriamo per strada.Come è ormai consuetudine in tutto il resto del mondo, di italiano nel locale c’è solo il nome, ma devo dire che, forse complice la fame, riesco a mangiare con gusto la pizza pakistana e le bruschette caraibiche.
1° GiornoLa mattina ci troviamo tutti di buon’ora nella sala della colazione. Il buffet propone un breakfast all’inglese ed io, come sempre mi succede appena poso piede in terra straniera, vengo preso da una specie di frenesia culinaria che mi spinge ad ingurgitare schifezze di ogni genere. Quando sono a casa, la mia colazione abituale consiste in una tazza di thè accompagnata da un biscotto, uno solo, perché due mi creano seri problemi intestinali, qui, però, quello stesso intestino, per un fenomeno scientificamente inspiegabile, non prova nessun imbarazzo nell’accogliere con soddisfazione: cappuccino, succo d'arancia, toast con burro e marmellata, fiocchi d'avena al cioccolato, uova strapazzate con pancetta abbrustolita, salsicce e … fagioli in umido.
Anche gli altri, però, approfittano volentieri. Forse anche troppo. Mia zia e mia sorella, infatti, fanno incetta di panini che riempiono di salumi e formaggi vari e, dopo averli sommariamente incartati in fazzolettini di carta, forse temendo una perquisizione corporale da parte del personale di sala, li infilano furtivamente nelle tasche del mio giaccone, quindi se ne vanno con fare indifferente.
Mentre gli altri si recano in camera per finire di prepararsi, io e Miriam ne approfittiamo per fare due passi nel parco di fronte all’albergo. La giornata è splendida. C’è il sole, il cielo è terso e, ovviamente, il freddo è bestiale.
Lo spettacolo del Kensington Gardens innevato è notevole. Come è notevole il Kensington Palace, già residenza di Diana Spencer, passando davanti al quale, riconsidero il concetto di ‘principessa triste’. Dopo una puntatina al suggestivo Round Pond ghiacciato, facciamo ritorno in albergo, dove troviamo tutta la compagnia pronta per partire.
Sto per accingermi a comunicare la prima parte del mio dettagliato programma mattutino, quando vengo informato che durante la mia breve assenza si è svolta una riunione segreta, durante la quale sono stato inopinatamente bypassato. I ‘vecchietti’ del gruppo sentono freddo (mio padre, per la prima volta nella vita, sfoggia con suo disappunto e l’ilarità di tutti, una coppoletta che mia madre lo ha obbligato a mettere per ripararsi la testa) e non se la sentono di camminare tutta la mattina, così hanno democraticamente deciso di effettuare un poco avventuroso, ma molto pratico, giro della città su un autobus turistico a due piani. Hanno persino già comprato i biglietti.
Per protesta, mi dissocio dal gruppo e salgo al secondo piano (scoperto!) del mezzo, a meditare sul tempo perso per stilare il mio favoloso itinerario di viaggio.
Dopo un’oretta di girovagare, devo ammettere che, a parte un principio di congelamento dovuto alla postazione esterna, il giro è piacevole. In definitiva, sarà turistico quanto si vuole, ma per chi non ha mai visto la città, soprattutto se non più giovane, è la soluzione ideale per farsene un’idea d’assieme. I ‘vecchietti’, infatti, ne sono entusiasti.
Durante il giro mi rendo conto di quanto Londra sia cambiata nei miei anni di assenza. Ci sono gru dappertutto ed imponenti nuovi grattaceli si stagliano nello skyline cittadino. Mia moglie, che purtroppo è architetto, non sta più nella pelle, e con il sostegno di Angela, sua esimia collega, mi costringe a scendere nella City per accompagnarla a dare un’occhiata da vicino alle ultime realizzazioni architettoniche. Raggiungeremo il resto della comitiva più tardi a Covent Garden.
Dopo aver indugiato ‘molto’ a lungo davanti al nuovo, avveniristico grattacielo del celebre architetto Norman Foster (una strutura dalla inequivocabile forma fallica, che qui hanno già soprannominato, con una certa bontà d’animo, ‘il cetriolo’), superiamo il Tower Bridge, maestoso simbolo della città, dal quale abbiamo una bella vista sulla storica Tower of London, ormai soffocata dalla crescita smisurata del quartiere retrostante, quindi facciamo un salto all’interessante Design Museum, dove mia moglie acquista delle geniali bacchette cinesi ‘facilitate’. Sono unite assieme da una molla e si azionano come una stravagante pinza gigante (nel nostro viaggio in Cina faranno furore). E’ qui che, mettendo le mani nella tasca alla ricerca del portafoglio, ne tiro fuori sconcertato una serie di sconosciuti panini che, con mio grande imbarazzo, sono costretto ad appoggiare sul bancone della cassa, provocando uno sguardo beffardo della cassiera.
Proseguiamo per il rinato South Bank e ad ogni passo incontriamo qualche meraviglia. La deliziosa Hays Galleria, un vecchio dock portuale abilmente ristrutturato, il nuovissimo ed audace municipio di Londra, anch’esso di Norman Foster, il reinventato Globe Theatre di Shakespeariana memoria, Vinopolis, curioso museo del vino, la Tate Modern, grandioso museo che visiteremo domani, la Oxo Tower, palazzo industriale ristrutturato, oggi sede di laboratori artistici e di un fantastico ristorante panoramico, il South Bank Centre, orribile centro culturale che comprende gallerie, teatri e musei, la London Eye, assurda ruota da luna-park immensa e costosissima, per finire con la colossale County Hall, per anni in cerca di utilizzo, oggi sede del London Aquarium e di svariati alberghi e ristoranti.

Stanchi, ma soddisfatti, ci infiliamo in metropolitana per andare a riunirci al resto del gruppo.
Giunti sul luogo convenuto, veniamo a conoscenza di una ulteriore divisione. Mentre i miei genitori e mia sorella ci hanno raggiunti, gli altri sono rimasti a girovagare per Westminster.
Ne approfittiamo per fare una passeggiata nel coloratissimo e chiassoso Covent Garden, anticamente mercato dei fiori ed oggi sede di negozietti vivaci e alla moda. Anche se continua a fare molto freddo, la bella giornata ha invogliato la gente ad affollare la piazzetta antistante.
Si sta avvicinando l’ora di pranzo, così, come aperitivo, ci concediamo una jacket potato, gustosa patata cotta al vapore e ripiena di salse di ogni genere. Mio padre, più che dalla novità gastronomica rimane colpito dal prezzo. “Sette sterline per una patata? Ma sono matti?”
Dato che i transfughi non si vedono ancora, stabiliamo di andare a pranzo per conto nostro. Il gruppetto, però, memore del vano girovagare della sera precedente, è un po’ indeciso. Per rompere gli indugi, prendo in mano la situazione e mi dirigo verso un locale la cui insegna mi ispira fiducia, ma che, solo all’interno, scopriremo trattarsi di una specie di fast-food orientale. I miei genitori tengono subito ad informarmi di odiare una sola cosa più del fast food: la cucina orientale. Sono però troppo stanchi per mettersi di nuovo a cercare e si abbandonano rassegnati al loro destino.
Il locale è moderno, dall’atmosfera informale e con un arredamento estremamente funzionale. Ci mettono a sedere, infatti, su delle panche comuni in legno. Mio padre, una volta accomodatici, mi chiede distrattamente. “A proposito. Lo sai cosa veramente non sopporto in un ristorante?”
“No” rispondo timoroso.
“Le panche comuni” risponde con una punta di sarcasmo nella voce.
“Ah” è la mia unica replica.
Le ordinazioni, come era prevedibile, sono una vera tortura, tra piatti dai nomi inpronunciabili e spiegazioni che nessuno capisce, mia madre impiega mezz’ora per scegliere una zuppa. La sua faccia all’arrivo del piatto rimarrà uno dei ricordi più divertenti del viaggio.
“Sembra sciacquatura di piatti” è il suo commento prima di accantonare definitivamente la portata.
Quando usciamo, finalmente arrivano i dispersi. La zia ci assale entusiasta “Avete visto le nuove costruzioni di Forrester?” chiede alla figlia.
“Foster, mamma, Foster. Quell’altro sta in Beautifull!” le risponde Angela rassegnata.
Dopo tanta cultura è giunto il momento di un po’ di sano shopping. E dove, se non da Harrods?
La metropolitana ci deposita proprio ai piedi del maestoso palazzo di Knightsbridge ed entriamo senza indugio nelle sue viscere.
All’ingresso veniamo accolti da un tabernacolo di dubbio gusto su cui campeggiano le foto di lady Diana e Dodi Al Fayed circondate da coroncine di fiori, uccelli dorati e finti ceri. Neanche a dirlo c’è la fila per farsi fotografare davanti, opportunità che mia cognata non si lascia sfuggire.
Tralasciamo i piani superiori e ci gettiamo a capofitto nelle sale del piano terra: quelle delle cibarie, ovviamente.
Ogni immaginazione a riguardo è semplicemente riduttiva. Con grande difficoltà una mente umana potrebbe concepire una simile quantità e qualità di vivande, esposte in un tale contesto di lusso sfrenato. Solo i prezzi frenano la nostra corsa all’acquisto. Ma l’evento che renderà memorabile la visita di Harrods sarà un altro. Sto attentamente valutando l’acquisto di una marmellata, quando, da una scala mobile al mio fianco, attorniato da una decina di gorilla, spunta l’inconfondibile figura di Mohammed Al Fayed, padre di Dodi, nonché proprietario dei magazzini. Mentre mi passa a fianco, mormoro alla zia Franca, consapevole della sua passione per i personaggi famosi, “Zia, guarda, c’è Al Fayed”. La zia si volta, ma il gruppetto è già passato. “Dove, dove?” mi urla nell’orecchio e, senza attendere la mia risposta, si butta alla rincorsa del personaggio. Sbalordito urlo agli altri ”Fermiamola, altrimenti le guardie del corpo la fanno fuori”. Così ci lanciamo tutti all’inseguimento della zia. La troviamo, senza più fiato, qualche reparto più in là. Ci dice che è riuscito a vederlo, ma dopo averlo seguito per un po’, si è dovuta fermare perché non ce la faceva a stargli dietro. Naturalmente, per il resto della giornata non ci parlerà d’altro. Ma non può immaginare che non sarà l’unico incontro importante del viaggio.
Usciti da Harrods tralasciamo la metropolitana e con una rilassante passeggiata percorriamo tutta Piccadilly, inoltrandoci per il quartiere di St. James, sede dei più famosi club londinesi per gentiluomini, alcuni dei quali, ancor’oggi, non permettono l’ingresso alle donne. Giudicati anacronistici dai più, rimane famoso il trafiletto che il Times, principale giornale di Londra, con tipico sarcasmo anglosassone, pubblicò sulle sue colonne: “Dopo un lungo periodo di ristrutturazione, ha riaperto ieri il Reform Club. I membri sono stati risistemati nelle rispettive posizioni”.
Visto che siamo in zona, una visita da Fortnum & Mason, con i suoi ambienti eleganti ed i commessi in frac, è d’obbligo. Pur se le cinque sono ormai passate, ci fermiamo a fare una pausa nell’elegante sala da thè, tra silenziose vecchine, probabilmente parte dell’arredamento, e turisti un po’ più esuberanti.
Resta il tempo per un giro tra i teatri del West End ed arriviamo al ristorante che sembra avere messo tutti d’accordo. Qualche ora prima avevamo infatti notato una sua pubblicità all’interno della metropolitana, ed il particolare che ci aveva maggiormente colpito era stata la promessa di un forte sconto sul prezzo finale, qualora avessimo prenotato per le sei del pomeriggio.
“Qualcuno di voi ha dei problemi nel cenare alle sei?” era stata la domanda retorica di mio padre.
Ne era seguito un significativo silenzio.
Il locale si presenta con una struttura davvero originale. Le sale si trovano in ambienti sotterranei ai quali si accede mediante un montacarichi che passa sopra le gigantesche cucine a vista. Si siede su panche comuni, a mò di refettorio, ed infatti i camerieri sono tutti vestiti con un saio da frate.
Mentre ci avviciniamo alla tavolata, mio padre mi esclama a bruciapelo.
“Lo sai cosa veramente non sopporto in un ristorante?”
“Lo so, lo so! Ma stavolta l’idea è stata tua”La cucina è di estrazione belga, nazione che non brilla per l’originalità dei suoi cibi, ma dopo un paio di birre nessuno se ne lamenta. Persino i miei genitori, dopo lo shock del pranzo, paiono entusiasti delle cozze e patatine che invadono il nostro tavolo.
2° Giorno
Il nuovo giorno si apre all’insegna di un cielo plumbeo. Se non altro il freddo si è attenuato.
Stamattina visiteremo la nuova Tate Modern. Molti tratti di marciapiede sono ghiacciati, così camminiamo in fila indiana, stile cordata. Come se non bastasse, dobbiamo affrontare la follia della guida a sinistra. A Londra è facile riconoscere i turisti. Sono quelli che quando devono attraversare la strada hanno l'occhio terrorizzato di chi sta per affrontare una missione suicida. Li vedi che si affacciano con circospezione dal marciapiede e, voltandosi a destra e a sinistra, cercano di capire da dove arriverà l'insidia. Probabilmente a causa dell'alta mortalità di stranieri sulle loro strade, gli inglesi, che per queste cose sono molto pragmatici, hanno dipinto sul bordo dei marciapiedi una serie di scritte, seguite da frecce, per indicare il lato verso il quale bisogna rivolgere lo sguardo. In caso di difficoltà, comunque, esiste sempre una via di salvezza: le strisce pedonali, che qui non sono, come da noi, un bersaglio disegnato sulla strada per mirare meglio gli ignari pedoni, ma un segnale venerato quanto le vacche sacre in India. Se volete divertirvi un pò, all'arrivo di un'automobile, mettete un piede in strada facendo finta di voler attraversare sulle strisce, assisterete a frenate degne del miglior Gran Premio di Formula Uno.
Ma torniamo a noi. La Tate Modern (succursale della più nota Tate Gallery) è un museo di arte moderna ricavato dalla ristrutturazione di una vecchia centrale elettrica in disuso. Si trova a Southwark, nel South Bank, la riva sud del Tamigi. Per raggiungerla attraversiamo il fiume sul nuovo Millenium Bridge, bellissimo ponte pedonale realizzato dall’onnipresente Foster “Forrester”, come lo abbiamo ormai ribattezzato.
Superata l’entrata dell’edificio, veniamo accolti da un immenso salone, totalmente sgombro, che funge da spazio espositivo per opere colossali. Nel bel mezzo, l’attenzione di tutti viene attratta da una crepa gigantesca che si allarga procedendo verso il centro del pavimento.
Dopo un primo istante di disorientamento, io e Angela leggiamo che si tratta dell’opera di un’artista colombiana. Ma prima di poter avvisare il resto del gruppo, la zia Franca decide di esternare le proprie perplessità.
“Non è stato un gran bel restauro. Si è già rotto tutto il pavimento” è il suo commento.
“Guarda che questa è un’opera d’arte - la incalza la figlia imbarazzata – Vuole rappresentare la frattura che la civiltà moderna sta portando nelle varie società”
“Sarà, ma nella frattura della civiltà moderna quel signore ci stava per finire dentro” replica la zia indicando un anziano signore che cerca di rialzarsi dopo essere inciampato nella crepa.
Liquidata così l’installazione d’apertura, ci inoltriamo nei piani superiori per visitare le sale che accolgono la collezione permanente. Come tradizione dei grandi musei londinesi, l’ingresso è gratuito e questo incoraggia anche i più refrattari all’arte moderna.
Degno di nota, il commento, molto british, dell’audioguida nella sala dell’artista tedesco Beuys: un lungo silenzio precede un significativo “Non c’è bisogno di commento”.
All’uscita, il gruppo si divide nuovamente. Stavolta in tre parti. Una fazione, condotta da mia zia e che comprende mia cugina, mio fratello e mia cognata, vuole andare a visitare la cattedrale di St. Paul, che si trova lì di fronte, la seconda, capitanata da me, opta per il quartiere di Bloomsbury, mia sorella, infine, si dirige verso Oxford Sreet per far visita ad un suo amico che lavora da quelle parti.
Bloomsbury è il quartiere della città che preferisco, oltre che per la presenza dello stupendo British Museum, anche perché è un compendio della Londra iconograficamente più conosciuta, quella a cavallo tra la fine del ‘700 ed i primi del ‘900. Insomma, la Londra che ti aspetti di vedere. E’ piacevole anche solo aggirarsi senza meta tra le sue strade. In ogni angolo vi si respira cultura e storia. La splendida Bedford Square, con le case georgiane perfettamente conservate e le cancellate nere sempre perfettamente verniciate, l’imponente Russel Square, con il bel parco al centro ed i suoi edifici vittoriani in mattoni rossi, Bloomsbury Square, sede del mitico Bloomsbury Group di Virginia Woolf.
Parcheggiati i miei genitori al British Museum, ci dirigiamo verso uno di quei gioielli poco conosciuti di Londra, che da anni desideravo visitare, ma per un motivo o per un altro non mi era mai riuscito: il sir John Soane Museum.
Il museo, in realtà è la casa dell’eccentrico John Soane, importante architetto ottocentesco con l’hobby del collezionismo. Dall’esterno non suscita grande impressione, sembra una delle tante villette a schiera che circondano il grazioso slargo di Lincoln’s Inn Fields, ma una volta entrati si rimane disorientati. Le stanze sono così sovraccariche di oggetti, sculture, quadri, libri, reperti archeologici di ogni epoca (perfino un vero sarcofago egizio!), che ad ogni movimento si ha il terrore di far cadere qualcosa, procurando danni inestimabili. Il tutto si snoda in una serie di ambienti che, grazie ad accorgimenti ed illusioni architettoniche, sembrano infiniti.
Siamo storditi e una volta fuori ci voltiamo istintivamente per ridare un’occhiata all’esterno del fabbricato.
“Ma dove accidenti le hanno infilate tutte quelle stanze!” è il commento tecnico di Miriam mentre si allontana.
Recuperati i genitori, entusiasti per avere visto la ‘Stele di Rosetta’ e la nuova, splendida, cupola di … Norman Foster, partiamo alla volta di Leicester Square, luogo dell’incontro con i transfughi.
Arriviamo per primi, così ci dedichiamo per un po’ ad uno dei più divertenti passatempi londinesi, quello che qui chiamano people watching e che può essere tradotto come: osservare il passeggio.
Credetemi, a Londra non c'è spettacolo migliore di questo. In un’oretta vedrete passare più gente alla moda, fuori moda, colorata, colorita, assurda, eccessiva, normale, sexy, elegante, kitsch, ridicola, di quanta non ne abbiate mai vista in tutta la vostra vita. Tanto per rendere l'idea, di fronte alla nostra panchina c’era un tizio vestito da Babbo Natale, con una parrucca verde in testa, che ballava il tip tap. Giuro.
Quando tutti gli altri ci raggiungono sono ormai le quattro. Nessuno ha pranzato, ma io e mio fratello sembriamo gli unici ad essere affamati, così, come topi attratti dalle note del pifferaio magico, ci dirigiamo verso un chioschetto in fondo alla piazza per assaporare quel trionfo del kitsch gastronomico, prelibato e ipercalorico che risponde al nome di 'fish and chips'. Messo a disagio dalle occhiate continue di ‘quelli che non avevano fame’, mio fratello commette l’errore di chiedere “Non è che volete provare?”. E’ un assalto. Le nostre porzioni finiscono in un batter d’occhio e dopo cinque minuti ci troviamo tutti appollaiati uno di fianco all’altro, chi sulle panchine chi seduto per terra, a sgranocchiare cartocci giganteschi di pesce e patatine fritte.

Mia zia, tra un boccone ed un altro, trova il tempo di raccontarci la spedizione del suo manipolo: constatato che per entrare a St. Paul si doveva pagare il biglietto, hanno girato i tacchi e si sono diretti verso Trafalgar Square, dove hanno visitato la National Gallery. Non ancora sazi, hanno fatto una visita ai negozi di Regent Street ed alla ormai non più mitica Carnaby Street.
La giornata fin qui trascorsa è stata piuttosto stancante, così un inizio di mal di schiena mi fa proporre una sosta ristoratrice in qualche pub. Sono proprio gli ‘arzilli vecchietti’, però, dei quali avevo sottovalutato le capacità di resistenza, a rifiutarsi. Vogliono continuare la visita.
“Londra val bene una messa!” sentenzia mia zia.
“Ma quella non era Parigi …” accenna mia sorella, subito messa a tacere da Marco.
“Paga la zia, quindi ha sempre ragione!”
Ci accordiamo quindi per un salto a Chelsea. Scendiamo con la metro a Bond Street, dove mio padre si accorge di aver ‘accidentalmente’ lasciato sulla carrozza della metropolitana l’odiato berretto. Intanto mio fratello, grande appassionato di Sherlock Holmes, ci abbandona, accompagnato dalla moglie, per indirizzarsi verso Baker Street alla ricerca di indizi. Noi attraversiamo l’elegante quartiere di Mayfair, una volta sede dell’aristocrazia londinese, ora lottizzata da sceicchi arabi con gigantesche Rolls Royce parcheggiate davanti casa e raggiungiamo Hyde Park Corner. Qui ci accorgiamo che c’è una discreta folla assiepata lungo Park Lane, c’è anche molta polizia che cerca di rallentare il traffico. Attraversiamo incuriositi per vedere che sta accadendo e, dopo pochi minuti di attesa, appare un corteo di nere auto di rappresentanza che procedono piuttosto lentamente. Nelle prime due ci sono alcuni uomini e donne in abito da cerimonia, ma sulla terza … beh, non sono un gran lettore di cronache mondane, ma i due tizi seduti sul sedile posteriore sono indiscutibilmente la Regina Elisabetta e consorte. Siamo tutti fulminati. Mia zia, contrariamente al suo solito, non ha parole, ma decide ugualmente di fare qualcosa, e fa ciò che qualsiasi italiano degno di questo nome avrebbe fatto in una simile circostanza: agita la manina e saluta. Ed ecco il miracolo. L'anziana signora alza la sua regale mano e saluta a sua volta, poi sparisce nel traffico cittadino. Chiaramente il saluto era impersonale e non certo diretto a mia zia, ma non proviamo nemmeno a farne accenno, perché da quel momento il gesto diviene concordemente “il saluto della regina alla zia Franca”. Nel frattempo proseguiamo la passeggiata, anche se la mente di molti è altrove, inoltrandoci per Belgravia, un suggestivo quartiere costituito da una serie interminabile di palazzi completamente bianchi con imponenti colonne sulle facciate. Di qui giungiamo in Sloane Square, piazza che è la porta di Chelsea e dalla quale parte la mitica King’s Road, la strada in cui nacque la “Swinging London” degli anni ’60.
Qui inizia uno shopping sfrenato di cose inutili a prezzi stratosferici.
E’ curioso come ogni volta che mi capiti di incontrare qualcuno che è appena tornato da un viaggio all'estero, vengo sempre ammaliato da racconti di cose stupende comprate per due soldi in negozietti sconosciuti. Per intenderci 'quei posti che solo i locali conoscono, mica le solite trappole per turisti!'
A me questi posti fantastici non è mai capitato di trovarli, il che mi porta a due possibili conclusioni: o gli altri sono molto più bravi di me, o vengo preso sistematicamente per il culo.
Propendendo più per la seconda ipotesi, ho iniziato a rendere pan per focaccia, così ora, quando mi capita di riportare qualche ricordino da un viaggio, dico sempre che non ho speso nulla, che ho trovato qualche artigiano che mi ha lavorato l'oggetto davanti accontentandosi di una manciata di spiccioli o altre idiozie di questo genere. Riesco sempre a fare colpo.
Prima di rientrare alla base, il gruppo vuole vivere un’avventura tipicamente londinese. Bere una birra in un pub.
Dopo le abituali indecisioni sulla scelta del locale, finalmente ne troviamo uno che sembra mettere tutti d’accordo. Una volta entrati, però, contrariamente alle nostre attese, veniamo accolti da un insolito silenzio. Percorriamo tutta la sala alla ricerca di un tavolo libero, ma continuiamo ad essere stranamente osservati dagli avventori. Prendiamo la cosa come la solita curiosità verso gli stranieri, anche se siamo in un quartiere molto frequentato dai turisti. Arrivati in fondo al pub, però, a mia madre scappa un urlo. Attaccato sul muro c’è un calendario piuttosto esplicito di uomini nudi. La situazione si fa all’improvviso chiara. Ci voltiamo all’unisono: i clienti sono tutti maschi, ed alcuni si tengono mano nella mano. Siamo in un locale gay. Dubitando che la novità possa eccitare i miei conformisti genitori, in silenzio, ci facciamo strada verso l’uscita e, sempre seguiti da una moltitudine di sguardi incuriositi, ci eclissiamo.
Intanto, le tenebre sono già calate … assieme alle forze degli irriducibili ‘vecchietti’.
Troppe emozioni in questa giornata, così ci concediamo un taxi per raggiungere l’albergo, dove ci attende la mia amica Giorgia, residente a Londra da quindici anni, che ha invitato noi più ‘giovani’ ad un party serale. Vi parteciperemo io, Miriam, Angela e Barbara. Mio fratello e la moglie, accompagneranno a cena i miei genitori e mia zia.
“Mi raccomando, mettetevi eleganti” lancia lì Giorgia con nonchalances appena ci incontriamo.
La guardiamo tutti inebetiti.
“Come eleganti?!” accenna Miriam atterrita.
"Non avete proprio niente di elegante?" insiste Giorgia.
"No che non ce l'ho, - protesto io - sono venuto con uno zainetto. Quello che indosso è la cosa migliore che ho portato"
Per la cronaca, indosso un maglione pesante in lana d’Aran, un paio di pantaloni verde militare con tasconi laterali e scarponcini stile trekking.
"Dai non fa niente, gli inglesi sono molto informali, sono sicura che nessuno ci farà caso"
Con questa allettante prospettiva ci prepariamo a partecipare al nostro primo party in terra d’Albione.
Giorgia, giusto per metterci ulteriormente in difficoltà, si presenta con un vestitino da sera nero incredibilmente scollato.
La festa si svolge a Maida Vale, un quartiere che non avevo mai sentito nominare prima d’ora, nella casa di un tale Max, direttore di banca appena trasferito a Londra, che ha organizzato la serata per conoscere un pò di gente nuova. Sembra che qui si usi molto.
L'appartamento è al piano terra di una bellissima casa vittoriana. Il salone, situato sul lato posteriore dell’abitazione, si apre con una grande vetrata su uno stupendo parco privato, di gran lunga più grande di qualsiasi parco pubblico della mia città, illuminato con graziosi lampioncini.
Entrati in casa, i timori legati al nostro abbigliamento si dissolvono immediatamente. Non possiamo certo affermare di essere i più eleganti, ma sicuramente i più coerenti in fatto di accostamento di colori e stili. Vige, infatti, una certa anarchia generalizzata ed è difficile riuscire a cogliere il criterio che ha ispirato l'abbigliamento dei presenti.
Rinfrancati dalla scoperta, facciamo un rapido giro d'orizzonte, dopo il quale, però, iniziamo a maturare un altro tipo di preoccupazione: nonostante i nostri sforzi non vediamo nessun cibo in esposizione. C'è infatti una lunga tavolata piena di ogni genere di bevande, tutte rigorosamente alcooliche e qualche nocciolina sparsa qua e là, ma di cibo vero e proprio neanche l'ombra. Giorgia mi aveva detto che di solito in queste feste gli invitati portano da bere ed il padrone di casa si occupa del companatico, ma evidentemente il nostro Max, da buon bancario, non vuola intaccare le sue finanze appena arrivato in città.
Cominciamo a rimpiangere di non avere seguito i ‘vecchietti’ a cena.
Come è ovvio immaginare, dopo un'oretta sono già piuttosto brillo. Per fortuna anche il resto della compagnia è sulla buona strada e le conversazioni, per quello che posso capire, sono alquanto scoordinate. Che tipo di conoscenze si possano fare in queste condizioni non saprei proprio dire, ma, visto che Giorgia ci ha subito mollato per mostrare le tette, in modo molto democratico, a tutti gli ospiti maschi, mi metto a cercare qualche persona sufficientemente ubriaca da riuscire a comprendere il mio inglese.
Dopo qualche tentativo andato a vuoto, riesco ad attaccare discorso con una tizia che indossa un inverosimile abito da gran sera che non avrebbe sfigurato in un ricevimento a corte. Miriam e Angela la guardano inorridite. Nel frattempo, un micidiale CD delle Spice Girls (pare riunitesi per l’occasione), sparato a tutto volume nella sala da un mega impianto stereo, non favorisce certo la nostra conversazione, ma mi pare di capire che la mia dama sia una qualche cugina di provincia del padrone di casa che, avendo probabilmente equivocato sulla natura dell'invito, ha un pò esagerato con la sua toeletta. Il bello è che nessuno sembra farci caso!
Mentre la mia noiosissima interlocutrice mi rende edotto sulle condizioni atmosferiche che hanno caratterizzato l'ultimo mese nel sud-est della Gran Bretagna, il mio sguardo furtivo, approfittando dell’assenza di mia moglie, si sofferma su una procace brunetta che sembra una delle ospiti più gettonate della serata. Appena il suo occasionale compagno si assenta per andare a dissetarsi o semplicemente si distrae un attimo, viene subito soppiantato da un'altro ospite in agguato. Indossa dei pantaloni neri attillatissimi, retti (si fa per dire) da un paio di bretelloni anch'essi neri che spiccano su una maglietta elasticizzata bianca. In effetti quello che maggiormente spicca è ciò che la maglietta cerca a fatica di contenere. Un seno ragguardevole, che avrebbero fatto insorgere qualche dubbio al conterraneo Newton nell'enunciazione della sua legge, è l'argomento che, a giudicare dagli sguardi, i suoi interlocutori sembrano interessati ad approfondire.
Mentre sono intento a studiare il fenomeno, una voce alle mie spalle mi interroga in perfetto italiano.
"Anche tu stai guardando BT?"
"Scusa? Chi è che starei guardando?"
"BT. Lei pensa che la chiamiamo così perché lavora alla British Telecom, ma in realtà vuol dire ‘Big Tits’. Se gli sguardi di tutti gli uomini presenti in sala lasciassero una scia ... sai, come i raggi laser, l'unico bersaglio inquadrato sarebbero le sue tette"
E’ una ragazza piuttosto carina, magra e dai movimenti nervosi. Il suo caschetto di capelli biondi la fa sembrare più giovane di quanto debba essere.
"Stavo solo guardandomi in giro – mento spudoratamente - Chi sei? Un'amica di Giorgia?"
"Si, ci conosciamo da molto tempo, ma non sono italiana. Sono svizzera"
Questa puntualizzazione mi lascia un pò infastidito.
"Come mai una svizzera che parla italiano si trova a Londra" dico con una punta di ironia.
"Non parlo solo italiano, anche inglese, francese, tedesco e russo. Faccio l'antiquaria e passo il mio tempo tra Londra e Nizza" risponde col chiaro intento di colpirmi.
In realtà sono colpito sul serio, ma non voglio darlo a vedere.
"Hai un negozio qui a Londra?"
"Si, faccio riferimento ad un negozio in Mayfair, ma non sono la titolare. Io sono una free lance"
"Accidenti! E che cosa fa di preciso una free lance dell'antiquariato?"
"Vado in giro per il mondo a trattare partite o singoli pezzi per le ditte che me lo richiedono. Prendo una percentuale sugli affari conclusi"
"Si deve guadagnare bene"
"Non mi posso lamentare. In realtà la parte maggiore dei miei guadagni mi deriva dalle consulenze. La mia specializzazione è l'arredo di interni"
"Questa casa l'hai arredata tu?" dico, pensando di farle un complimento.
"Scherzi? L'arredamento di questa casa è un vero schifo!"
Che cavolo, a me non sembra poi così male. Le devo far conoscere mia moglie, sicuramente andranno d’accordo.
"Perché, che cos'ha che non va?"
"Prendi i quadri, ad esempio, sono tutti delle croste. E poi, quei mobiletti buttati qua e là solo per riempire dei buchi! Le poltrone ed i divani sono orribili e sistemati male ..."
Come al solito ho posto la domanda sbagliata. Caschetto biondo, infatti, parte in quarta a distruggere sistematicamente quella splendida casa. Per fortuna dopo poco arriva mia sorella.
Ne ho abbastanza di quel party. Sono stanco, ubriaco ed incredibilmente affamato. In più mi sta venendo un istinto irrefrenabile di fare in mille pezzi il CD delle Spice Girls che continua imperterrito a martoriarmi il cervello.
Dopo aver recuperato i parenti e salutato Giorgia, ci facciamo chiamare un taxi e, barcollanti, abbandoniamo Max al suo destino.
3° GiornoLa mattina di buon’ora siamo tutti in piedi. L’aereo riparte nel primo pomeriggio ed abbiamo poche ore per fare gli ultimi giri.
Il gruppo stavolta si sfalda in partenza. Ci sono i neofiti di Londra che vogliono espletare le ultime pratiche da bravi turisti. Andranno a Portobello e poi a vedere il cambio della guardia a Buckingham Palace. Noi più pratici della città, ci dedicheremo a percorsi un pò meno usuali. La nostra prima tappa è Canary Wharf a Docklands. Il nuovo e fantascientifico tratto della Jubilee Line ci deposita in un baleno nella stazione progettata (neanche a dirlo) da Norman Foster. Gli architetti si fermano a dare un’occhiata al quartiere e al gigantesco, quanto inutile, Millenium Dome, io proseguo per Greenwich. La mia passione per la vela, fa di questa meta una specie di pellegrinaggio. Pregusto già l’emozione nel mettere piede in questo santuario della tradizione navale inglese. Rimango rapito davanti al Gipsy Moth IV, vero e proprio guscio di noce su cui Sir Francis Chichester nel 1967 fece il giro del mondo in solitario, ed affranto davanti al disastro dell’imponente Cutty Sark, uno degli ultimi velieri che facevano rotta per le indie, ridotto in cenere nella sua quasi totalità da un recente incendio. Non ho però il tempo per commuovermi. Ho una meta più importante. Devo assolutamente visitare il National Marittime Museum. Passo in rassegna le sue sale piene di dipinti, oggetti, modelli, che ripercorrono la storia della navigazione dagli albori ai giorni nostri e mi fermo ipnotizzato davanti all’uniforme che Lord Nelson indossava nella battaglia di Trafalgar, ancora sporca di sangue.
All’uscita, affronto la salita che mi porta all’Old Royal Observatory. Sopra questo fabbricato passa il ‘meridiano fondamentale’, quello che determina la misurazione del tempo in tutto il mondo.
Giungo in cima alla collina, boccheggiante, giusto per scoprire che l’ingresso è a pagamento. Non ho tempo per fare la fila, così torno sui miei passi.
A metà discesa incontro due italiani che mi chiedono col fiatone.
“Com’è?”
“Si paga” è la mia lapidaria risposta.
Tanto basta per farli desistere. Si voltano e proseguono con me la discesa.
Mentre mi avvio alla metropolitana, mi volto per un ultimo sguardo. Sono contento. E’ stato un viaggio breve. E’ stato un viaggio folle. E’ stato un viaggio emozionante.
Londra … val bene una messa!