E' finalmente uscito il mio primo libro!
Una raccolta di racconti di viaggio intitolata
"IL MONDO...VAL BENE UNA MESSA -
Avventure semiserie di un turista dilettante"
edita da &myBook-Caravaggio Editore.
Ho deciso di compiere questo megalomane passo, spinto dalle innumerevoli mail di apprezzamento ricevute dopo la pubblicazione dei miei racconti sul sito TURISTI PER CASO di Syusy Blady e Patrizio Roversi, i quali, tra l'altro, mi hanno concesso per ben due volte l'onore della home-page.
Il libro ha 185 pagine ed un costo di euro 13,50.
ISBN: 9788896096628
Colgo l'occasione per ringraziare Filippo Spiezia (http://www.stilelibero.com/) per la realizzazione della divertente copertina.
DOVE PUO' ESERE ACQUISTATO:
- presso la libreria EDISON BOOK STORE di Via Carducci a Pescara
- nei seguenti siti: www.ibs.it, www.unilibro.it; www.libreriauniversitaria.it, www.webster.it, www.deastore.com
Di seguito riporto la recensione della casa editrice ed alcuni commenti dei lettori:
Come si può arguire dagli incipit dei suoi divertenti racconti, per l’Autore la scelta delle destinazioni non è sempre ben ponderata e programmata con accuratezza, ma la filosofia che anima le sue avventure in giro per il mondo è improntata alla ricerca di spunti che stimolino la sua capacità di osservare gli aspetti più insoliti e curiosi dei paesi in cui si reca. Come dire: l’importante non è dove andare, ma… andare. Occhio critico e attenzione a ciò che lo circonda ne fanno un viaggiatore, più che un turista in senso lato, e questi tre racconti, che affrontano le peripezie di una spassosa gita a Londra con famiglia, di un viaggio quasi “per caso” in Cina e di un “doloroso” (a voi scoprire il perché) itinerario in India, ne sono l’evidente riprova.
Record di segnalazioni dei lettori per il racconto LONDRA ... VAL BENE UNA MESSA di Luciano Menoni (www.turistipercaso.it)
“Segnalo il racconto IN CINA…PER CASO, davvero divertente e ben scritto. Un gradito ritorno dopo il bellissimo "Londra...val bene una messa"
“Finalmente non soltanto un banale diario di viaggio, ma un vero racconto coinvolgente e spiritoso”
“… Mi ha fatto venire voglia di partire !”
Ciao
Lou
domenica 10 gennaio 2010
martedì 13 marzo 2007
IL MONDO SULLA TELA
(Luc artista?)
Alcune immagini della mia prima mostra di pittura, svoltasi in un locale cittadino.
Il programma della serata recitava così:
IL MONDO SULLA TELA, è la frase che meglio racchiude l’opera di LoU, un artista che fa del suo essere cittadino del mondo una vera bandiera.
In anni di viaggi in tutto il mondo ha raccolto i caratteri essenziali delle diverse culture con cui si è trovato a contatto, ricavandone materiale prezioso per il suo lavoro.
Un lavoro che scava nella natura, nelle tradizioni, nelle opere dell’uomo e ne ricava una gioia infinita. Quella gioia che da sempre trasmettono i suoi dipinti.
Wow! Sarà vera gloria?
Ai posteri l'ardua sentenza.
Grazie, comunque, a tutti coloro che sono intervenuti. Tanti amici sono già un successo!
Il programma della serata recitava così:
IL MONDO SULLA TELA, è la frase che meglio racchiude l’opera di LoU, un artista che fa del suo essere cittadino del mondo una vera bandiera.
In anni di viaggi in tutto il mondo ha raccolto i caratteri essenziali delle diverse culture con cui si è trovato a contatto, ricavandone materiale prezioso per il suo lavoro.
Un lavoro che scava nella natura, nelle tradizioni, nelle opere dell’uomo e ne ricava una gioia infinita. Quella gioia che da sempre trasmettono i suoi dipinti.
Wow! Sarà vera gloria?
Ai posteri l'ardua sentenza.
Grazie, comunque, a tutti coloro che sono intervenuti. Tanti amici sono già un successo!
lunedì 12 marzo 2007
IN CINA... PER CASO - Parte 1
(diario semiserio di un italiano in Cina)
E’ passato da poco Natale quando io e mia moglie, assieme ai nostri amici Paola e Gianni, diamo il via a frenetiche consultazioni in cerca di una meta per le vacanze estive.
Dopo aver vagliato tutto il globo terracqueo in lunghe sedute invernali, l’unica decisione che riusciamo a prendere è che partiremo il 15 agosto.
Una settimana prima della fatidica data, più per sfinimento che per convinzione, deliberiamo: andremo in Polonia e Repubblica Ceca.
Il giorno dopo, svaligiata una libreria di tutte le guide esistenti su queste nazioni, mi stendo sotto l’ombrellone accingendomi ad iniziare la lettura.
“Ferma tutto. Ho risolto la vacanza” mi blocca mia moglie parandomisi davanti.
“Ah si? E come?” rispondo con un sorrisino ironico.
“Andiamo in Cina con Marina”
Il sorrisino mi si spegne in bocca, tramutandosi in una smorfia di panico.
“In Cina …? Con Marina …? E chi è Marina?”
“Non fare lo scemo. E’ la mia amica di Bari. E’ stata anche testimone nel nostro matrimonio… ricordi?”
Mi torna immediatamente la memoria.
“Va bene, ma che ci va a fare in Cina?”
“Va a trovare il fidanzato che si è trasferito lì per lavoro, così ci ha invitati a raggiungerla”
Ci penso un po’, poi sentenzio solennemente: “Ok. Allora andiamo in Cina”.
La Cina. Dunque. Cosa so io della Cina?
Mao Tze Dong, ping-pong, L’Ultimo Imperatore… praticamente nulla!
Torno di corsa in libreria e sotto gli sguardi perplessi della cassiera, compro una guida di questo sconosciuto paese. Una sola, stavolta, perché le sue dimensioni sono all’incirca le stesse di tutte le precedenti guide messe assieme.
Dopo aver avvertito Gianni e Paola del piccolo cambiamento di programma (i quali, a parte un leggero mancamento iniziale, accettano con entusiasmo), ci rechiamo tutti in corteo nella solita agenzia di viaggio.
“Potevate venire un po’ più tardi! Le compagnie aeree stavano giusto aspettando voi” è la prima reazione dell’operatore.
“Non faccia l’esagerato. Chi vuole che ci vada in Cina!” rispondo con il solito sorrisino sulle labbra che anche questa volta, però, sarà destinato a spegnersi progressivamente. Infatti, dopo un’ora di disperate ricerche, di biglietti economici con partenza il 15, neanche l’ombra.
Cominciamo quindi a vagliare quelli ‘sufficientemente accettabili’, fino ad arrivare ai ‘quasi disumani’. In questa categoria riusciamo finalmente a trovare quattro miseri posticini su un volo Air France.
Mancano solo tre giorni alla partenza ed abbiamo appena il tempo per fare le valige.
“Sì, ma che ci mettiamo nelle valige?” mi fa notare Miriam.
Basta una rapida occhiata alla guida per cominciare a farci nutrire i primi dubbi sulla bontà della nostra frettolosa decisione.
Sembra che la Cina in agosto sia uno dei posti più infernali del mondo: caldo, umidità, piogge, tifoni e chi più ne ha più ne metta.
“Le valige saranno leggerissime” concordiamo all’unisono, e per la prima volta in vita nostra riusciamo a far entrare tutto in appena due trolley!
Partenza
La mattina dell’imbarco devo ammettere di essere emozionato, cosa che non mi succedeva da molto tempo per un viaggio, ma davvero non so cosa aspettarmi dalla mitica e misteriosa Cina.
Il volo aereo, intanto, non fa altro che rafforzare la mia atavica idiosincrasia nei confronti di tutto ciò che abbia a che fare con la Francia.
Gli spazi fra i sedili sono così ristretti che il signore davanti a me, una volta reclinato il suo schienale, mi si corica teneramente in braccio. Per di più, sono intrappolato nel sedile centrale della fila e la giovane ragazza francese che mi siede accanto, tanto elegante quanto scostante, dopo aver tentato invano di farsi servire champagne in classe economica, cade all'istante in catalessi, stato dal quale riemerge, come per miracolo, pochi secondi prima dell’arrivo di ogni pasto. Riesco ad evitare una trombosi fulminante solo compiendo bizzarri esercizi all’interno del mio microscopico spazio vitale. Se a ciò aggiungiamo che le hostess sono di una scortesia rara, che i film trasmessi sono francesi e cinesi (davvero una bella lotta) e che il cibo è tra i peggiori mangiati nella mia lunga esperienza aeronautica, devo dire che saluto l’arrivo a Pechino con grande entusiasmo … non solo per l’inizio dell’avventura!
1° Giorno: Pechino
All’aeroporto troviamo la prima piacevolissima sorpresa. Marina e Francesco, il suo fidanzato, sono venuti a prenderci e, mentre gli altri turisti si affannano per cercare di districarsi nella jungla di taxi multicolori all’uscita dell’aeroporto, noi ci sistemiamo comodamente nel pulmino con autista che i nostri amici hanno affittato per l’occasione.
In realtà Francesco lavora come ingegnere a Suzhou, vicino Shanghai, ed è venuto a Pechino, approfittando del nostro arrivo, per passare qualche giorno di vacanza assieme a Marina (che ci aveva preceduti di qualche giorno), in questa città che non conosceva ancora.
I due ripartiranno questa sera alla volta di Suzhou, lasciandoci come gradita eredità sia il pulmino che l’autista.
Il primo impatto con Pechino è sconvolgente. Assolutamente nulla di ciò che avevamo immaginato. Una città modernissima, ma di un moderno ‘disordinato’. Migliaia di palazzoni enormi ed anonimi sono sorti e continuano a sorgere (la strada dall’aeroporto al centro è una sequela interminabile di cantieri) senza alcun apparente disegno urbanistico. Le larghissime strade, simili alle highway di Los Angeles, sono intasate da un traffico caotico fino all’inverosimile.
Se non fosse per le scritte dei negozi e per la fiumana di biciclette, si stenterebbe a credere di trovarsi in Cina.
Il primo pensiero che mi corre per la mente è: cosa succederà quando qualche centinaia di migliaia di questo milione di ciclisti potrà comprarsi un’automobile?!
Mentre guardiamo rapiti l’incredibile spettacolo, Francesco comincia a fornirci qualche utile consiglio di sopravvivenza.
“Se volete conservare la vostra incolumità, la prima cosa che dovete ricordare è che qui gli automobilisti sono dei pazzi criminali …” e non ha ancora ultimato la frase, che una macchina sbuca a tutta velocità da una strada laterale tagliandoci la strada e costringendo Zhao, il nostro autista, ad una frenata brusca. Ci aspettiamo qualche sana bestemmia come reazione, invece nulla. Come se niente fosse, Zhao innesta la marcia e riparte senza dire una parola.
E’ questa la nostra prima lezione sulla filosofia di vita di questo popolo. Dopo svariate centinaia di anni di muta sopportazione, i cinesi hanno perso l’abitudine di protestare. Nulla li può scuotere dalla loro imperturbabile rassegnazione e, durante il nostro viaggio ne avremo numerose riprove.
Evitati per un pelo una dozzina di auto e qualche centinaio di ciclisti, arriviamo finalmente in albergo, piuttosto scossi.
Il nostro hotel, prenotato dall’Italia via Internet, è un siheyuan ristrutturato. Si tratta di una antica residenza tipica del luogo, nella quale, dicono abbia dormito Tony Blair durante la sua visita in Cina, ma mi sento di nutrire qualche dubbio in proposito. La struttura è ad un piano e tutte le stanze si affacciano su un cortile centrale molto suggestivo, soprattutto la sera, quando le lanterne rosse appese davanti ad ogni porta sono accese. Le stanze sono piccole, ma arredate con mobilio tradizionale. Insomma, quello che ci voleva dopo lo shockante impatto con la ‘nuova Cina’.
Il tempo di una doccia e siamo subito in pista. A dire il vero, dopo il lungo viaggio e una notte totalmente insonne a causa del fuso (e dei tremendi sedili), siamo distrutti, ma vogliamo far fruttare al massimo il tempo a nostra disposizione.
Dopo aver riaccompagnato Marina e Francesco all’aeroporto, il nostro autista torna a prenderci e, prima di mettersi in moto ci mostra un foglio su cui è stampato un itinerario dettagliato dei tre giorni seguenti. Non parla inglese, e men che meno italiano, quindi non riusciamo a capire cosa voglia comunicarci.
E qui è bene aprire una parentesi importante. In Cina nessuno parla inglese, se non qualche sporadico addetto al turismo o negoziante intraprendente. Le conversazioni, quindi, si svolgono alla stessa stregua di quelle tra due sordomuti che non conoscono il linguaggio dei segni. Scrivere non serve a nulla, perché loro non sanno leggere i caratteri occidentali, né noi i loro incomprensibili scarabocchi. Ma la cosa drammatica è che anche la gestualità è totalmente differente, quindi, potrete sbracciarvi quanto volete ballando il ‘ballo del qua-qua’ nel tentativo di mimare un’anatra (abbiamo fatto anche questo). Non vi capiranno.
Per fortuna sembra che i giovani, oltre che scimmiottare la moda occidentale, comincino anche ad interessarsi allo studio dell’inglese e nel futuro le cose potrebbero cambiare.
Ma torniamo a noi.
Dopo una estenuante battaglia verbale con il nostro autista, riusciamo a capire che quello che ci ha mostrato è il nostro programma di visita. Non conoscendo i cinesi la parola ‘anarchia’, così cara a noi italiani, devono sempre attenersi ad un qualche programma, quindi l’agenzia, in mancanza di altre indicazioni, ci ha preparato un itinerario a sua discrezione.
Nei giorni successivi, evadere dal programma ufficiale sarà tanto difficile quanto divertente.
Per ora siamo troppo stanchi per discutere, quindi, ci facciamo portare buoni buoni alla nostra prima meta: la Città Proibita.
Prima di ogni altra cosa, però, dobbiamo recarci in un ufficio turistico per acquistare i biglietti degli aerei e dei treni che utilizzeremo nei prossimi giorni per i nostri spostamenti.
Zhao ci porta nella sede del CITS, l’ufficio statale per il turismo cinese, una moderna costruzione tutto vetro e cemento, dove veniamo accolti da un gentilissimo impiegato che, in un inglese comprensibile, in men che non si dica esaudisce tutte le nostre richieste. Stiamo già complimentandoci per l’inaspettata dimostrazione di efficienza, quando arriva il momento di pagare. Tiriamo fuori le carte di credito … ed inizia la nostra Odissea. Senza scomporsi, l’impiegato fa cenno di seguirlo e ci accompagna in una stanza al piano di sopra. Qui un altro impiegato ci fa compilare un modulo piuttosto dettagliato, quindi ci accompagna in una seconda stanza, dove consegniamo le carte di credito. Alla terza stanza, cominciamo ad avere il sospetto che le cose non saranno così semplici. Io e Gianni, esterrefatti, ma al contempo affascinati da tanta organizzata disorganizzazione, continuiamo nel nostro via vai tra corridoi, scale ed ascensori per prendere le ricevute, firmare le ricevute, riavere le carte di credito … il tutto rigorosamente in stanze diverse. E’ una burocrazia a compartimenti stagni che ti ipnotizza togliendoti ogni velleità di reagire.
Finalmente facciamo ritorno a pianterreno con le nostre belle ricevute di pagamento che consegniamo all’amico impiegato, il quale ci comunica con un largo sorriso che i nostri biglietti sono nel terminale e basta farli uscire dalla stampante. Data la sua immobilità, però, questa operazione non sembra interessarlo particolarmente.
“Bene, e perché non lo fa?” accenna timidamente Paola.
“Perché è mezzogiorno e io sono in pausa. Ci dobbiamo rivedere più tardi” è la risposta del nostro ineffabile amico, il quale prende una pesca dal cassetto della sua scrivania e se ne va da una porta secondaria lasciandoci tutti con un palmo di naso.
Queste poche ore in terra cinese ci hanno già fatto capire dei suoi abitanti più delle decine di libri e guide che eravamo riusciti a leggere prima di partire. Ma ogni minuto che passa facciamo qualche nuova scoperta. Ad esempio, cominciamo a nutrire il sospetto che il nostro taciturno Zhao sia un membro dei servizi segreti, in quanto non ci lascia un attimo da soli e ogni volta che scendiamo dalla macchina ci segue come un ombra.
Ripresa la marcia di avvicinamento alla Città Proibita, parcheggiamo l’auto nei pressi di piazza Tian’anmen, e naturalmente Zhao vorrebbe accompagnarci anche dentro il sito, ma stavolta siamo irremovibili: la visita la vogliamo gestire secondo i nostri tempi.
Detto così potrebbe sembrare una cosa semplice, ma in realtà la nostra botta di orgoglio ci costa una lunga e laboriosa discussione sotto il faccione di Mao che campeggia benevolo dall’alto della porta d’accesso alla Città Proibita.
Quando finalmente riusciamo ad avere ragione di Zhao, con nostra grande sorpresa ci accorgiamo di essere attorniati da decine di persone che ci osservano con attenzione, facendo commenti fra di loro.
“E questi che vogliono?” accenna Gianni
“Boh. Uno mi ha anche messo il braccio sulla spalla per sentire meglio” replica Paola.
E’ il nostro primo impatto con la smodata curiosità dei cinesi, e la loro assoluta mancanza di pudore. Durante il viaggio ne avremo molti altri esempi, alcuni esilaranti. A tale riguardo, una delle cose che i cinesi sembrano trovare irresistibile è sbirciare dentro i piccoli schermi delle telecamere dei turisti. Mentre si è intenti a fare riprese, infatti, non è raro vedersi fare capolino, da sopra una spalla, la testa di qualcuno che vuole guardare cosa si sta filmando.
Finalmente soli, ci soffermiamo un attimo su uno dei ponti che accedono alla Città Proibita per dare uno sguardo all’immensa piazza che si apre davanti a noi. A causa delle molte costruzioni presenti al suo interno, non se ne ha una comprensione globale, ma volendola girare a piedi, ci si accorge della sua vastità. Tutt’attorno i palazzi del potere e, appena alle sue spalle, una gigantesca struttura moderna che sembra un pallone pressostatico fuori formato. La guida dice che è il nuovo, criticatissimo (a ragione direi), Teatro dell’Opera.
Mi tornano alla mente le immagini in bianco e nero dei telegiornali di quando ero bambino che mostravano questo immenso spiazzo percorso da carri armati e soldati in parata, sotto lo sguardo (stavolta reale) di Mao e di un’altra serie di cariatidi in pigiama e berrettino. Gli stessi pigiami e berrettini che vedo indosso ad un gruppo di tizi che mi passano a fianco. I volti segnati, probabilmente contadini dell’entroterra venuti in visita nella grande capitale, saranno gli unici ad indossare le vecchie divise maoiste, che vedremo in tutto il viaggio.
Il giro nella Città Proibita è lungo e, per noi, piuttosto faticoso. Per fortuna il cielo è un po’ coperto ed il caldo è sopportabile. Come spesso accade in posti famosi, si ha sempre l’impressione di averli già visti, anche se è la prima volta che si visitano, e questo non fa eccezione.
Il sito è una serie ininterrotta di grandi piazze e costruzioni in legno, molto diverse dal nostro concetto di palazzo. Sono in realtà dei grandi padiglioni ad un piano aperti verso l’esterno. Abbandonati a se stessi per lunghi anni, molti sono ora in fase di restauro. Purtroppo non è consentito entrarvi, e le loro decoratissime sale si possono vedere solo attraverso delle vetrate, sempre che si abbia voglia di ingaggiare degli incontri di lotta libera con la muraglia di visitatori che vi stazionano davanti.
Al termine della visita accogliamo come una manna il bel giardinetto nei pressi dell’uscita, dove ci fermiamo all’ombra per riposare e riordinare le idee.
Non abbiamo voglia di tornare da Zhao, così, eludendone la sorveglianza, ci spingiamo fino all’immenso (è l’ultima volta che uso questo termine, tanto in Cina è tutto immenso) parco del lago Beihai, uno dei tanti polmoni verdi della città. Qui affittiamo un pedalò e ci rilassiamo sull’acqua, ipnotizzati dallo splendido paesaggio e … dall’insistente cigolio dei pedali, che avrebbero bisogno di una bella oliata.
Dopo esserci fermati in un baretto a mangiare un Magnum Algida (sorprendentemente, sono i gelati più diffusi in tutta la Cina), ritorniamo al pulmino, prima che Zhao decida di denunciare la nostra scomparsa alla temibile polizia cinese.
Tornati in albergo evitiamo di allungarci sul letto, per non rischiare di addormentarci. Sono quasi 36 ore che non chiudiamo occhio, ma in questa lunghissima prima giornata abbiamo un’altra importante incombenza che nessuno vuole perdere: l’anatra laccata!
Zhao ci porta in uno dei più antichi e famosi ristoranti di Pechino specializzati in questa prelibatezza: il Quanjude Roast Duck Restaurant.
L’ingresso in questo tempio dell’anatra alla pechinese è shockante. Il locale è immenso (accidenti, ci sono ricascato) e sovraffollato. Dopo aver ritirato un numero da una avvenente ragazza in costume tradizionale, veniamo parcheggiati in una specie di sala d’attesa, attrezzata con sedie sistemate a platea, nella quale una cinquantina di persone attendono pazientemente il loro turno. Chiaramente i numeri vengono di volta in volta annunciati in cinese, quindi, messo il nostro orgoglio nel cassetto, preghiamo Zhao di rimanere con noi per avvertirci quando saranno chiamati i nostri.
Sulla parete di fondo di questa affollata ‘antisala’, una grande vetrata si apre sulle cucine dove, sotto i nostri occhi rapiti, una squadra di cuochi prepara, come in una catena di montaggio, una enorme quantità di volatili. L’interminabile fila di anatre appese per il collo a mò di impiccato, dà una certa credibilità al vistoso display luminoso attaccato nella sala da pranzo, il quale aggiorna il numero degli uccelli che sono stati sfornati dall’apertura del locale: ad oggi ben 115 milioni. Una strage!
La cena viene servita secondo un rituale rigoroso ed un po’ asettico. Un cameriere in mascherina e guanti da chirurgo, raggiunto il nostro tavolo con un’anatra grande quanto un tacchino adagiata su un carrello, ci seziona abilmente l’animale ricavandone sottili fette di carne e pezzi di pelle croccante, che ci invita a mangiare dentro delle frittelline di pane con l’aggiunta di verdure ed una salsa scura e dolciastra. Dopodiché, con un colpo netto le taglia la testa e la spacca a metà, poggiandola con cura sul tavolo come un oggetto particolarmente prezioso. In effetti è questa la parte più ambita dai cinesi che la considerano una vera leccornia, ma per noi sarà una presenza inquietante per tutta la durata della cena. La distribuzione di un brodino conclude l’operazione.
Che dire? Tralasciato il brodino (e, naturalmente, la testina) che è oleoso e insapore, tutto il resto è semplicemente divino. Il conto, poi, è quasi ridicolo, ma non immaginiamo ancora che questo sarà il pasto più costoso di tutto il viaggio!
Distrutti, ma felici, raggiungiamo l’albergo dove finalmente ci tuffiamo nei nostri graziosi lettini di legno e bambù, accompagnati dal canto dei grilli.
2° Giorno: Pechino
La mattina dopo ci ritroviamo nella sala della colazione dove è esposta tutta una serie di cibi misteriosi che gli avventori locali mangiano di gusto accompagnandosi con brodini caldi e verdure bollite.
Ho già avuto modo di illustrare la frenesia gastronomica che caratterizza i miei viaggi all’estero, ma devo ammettere che un brodino con le verdure in prima mattina non riesce proprio ad attirare la mia curiosità. Prendiamo quindi un thé ed un po’ di frutta e usciamo in strada dove Zhao ci sta già attendendo, chissà da quanto, con il temuto programma in mano. Veniamo quindi a sapere che per la mattinata è prevista la visita al Tempio del Cielo, cui farà seguito, nel pomeriggio, il Palazzo d’Estate.
L’itinerario non ci soddisfa. Noi vogliamo visitare prima il Palazzo d’Estate e poi la Grande Muraglia, per lasciare il Tempio del Cielo al giorno successivo, ma questo è decisamente troppo per la sua (e la nostra) comprensione linguistica, quindi, preso il telefonino, chiama il suo capo. Qui inizia una surreale conversazione a tre (sarebbe meglio dire a sei) con Zhao che pone le domande in cinese al suo capo, il quale le traduce a Paola, la nostra interprete ufficiale, in un inglese quasi incomprensibile, questa la ritraduce a noi in italiano, quindi ritraduce in inglese le nostre risposte al capo, il quale le riritraduce in cinese a Zhao. Il tutto con un solo telefonino che viene passato vorticosamente dall’uno all’altro. E’ difficile crederlo, ma riusciamo a metterci d’accordo e partiamo di gran carriera verso il Palazzo d’Estate.
Il viaggio è breve e, dopo la solita mezza dozzina di incidenti evitati miracolosamente lungo la strada, raggiungiamo questa antica residenza estiva della corte imperiale, vero rifugio dall’insopportabile calura della Città Proibita. Come al solito, non si tratta di un vero e proprio palazzo, ma di una serie di padiglioni e templi sparsi attorno ad un lago ed avvolti da una rigogliosa vegetazione. Il posto è incantevole, anche se stracolmo di turisti. Durante la visita abbiamo la conferma di ciò che avevamo intuito il giorno precedente. I turisti in Cina sono quasi tutti cinesi che, forse iniziando a godere di una certa disponibilità economica, affollano praticamente ogni angolo del loro paese.
E’ comunque estremamente piacevole passeggiare tra i vari camminamenti che costeggiano il lago, superando ponticelli che si affacciano su distese di fiori di loto. Oggi è una giornata serena e la calura si fa sentire, ma la fitta vegetazione ed i molti porticati, offrono continue possibilità di refrigerio. Cosa che non si può dire della scalinata che conduce alla Torre dei profumi Buddisti che i miei compagni mi costringono a salire per poter ammirare la vista dall’alto. Il percorso, infatti, è scoperto ed arrivo in cima boccheggiante, giusto in tempo per ottenere un clamoroso schiaffo morale da una signora, salita prima di me, così vecchia da sembrare millenaria e che per di più ha dei piedi minuscoli, nel rispetto di una tradizione molto in voga nel passato ed oggi fortunatamente messa al bando. La signora in questione, infatti, complice anche l’età, è costretta a camminare in modo malfermo e deve reggersi continuamente per non cadere. Vedere caracollare questa vecchietta sui suoi moncherini è al contempo emozionante e commovente.
Giunti alla fine del giro e dopo aver ammirato, tra le altre cose, una improbabile nave di pietra ormeggiata sulle rive del lago, prendiamo un battello (vero) che ci riconduce all’uscita. Durante il breve tragitto Paola si produce in una accanita conversazione con un gruppo di studenti coreani che, una volta conosciuta la nostra nazionalità, ci accolgono con l’ormai consueto “Italiani. Buffon … Inzaghi … Del Piero …”. E’ sorprendente come, in barba a millenni di cultura, l’unica immagine dell’Italia che riusciamo ad esportare è quella dei nostri calciatori.
Recuperato Zhao, partiamo immediatamente alla volta della Grande Muraglia.
Il nostro amico Francesco ci aveva consigliato di non farci portare a Badaling, sempre affollato di turisti, ma a Mutianyu, ugualmente bello e meno frequentato. E così facciamo. Il percorso è un po’ più lungo, ma il panorama è tanto incantevole da non lasciarci un momento di distrazione… nonostante le manovre di Zhao che, ce ne accorgiamo ora con una certa apprensione, non sa guidare. Riesce a destreggiarsi benissimo nel folle traffico cittadino, ma appena il percorso si fa più accidentato, le sue carenze di pilota vengono drammaticamente alla luce. A parte la disattenzione delle più elementari norme stradali (sorpassi azzardati, ecc.) affronta le numerose curve in salita sempre in maniera errata, a volte tagliandole troppo, a volte facendo il pelo allo strapiombo che scorre sulla nostra destra, ovviamente privo di guard rail.
Stiamo proprio riflettendo su questo, quando, superata una curva cieca, Zhao rallenta e ci indica di guardare in alto. All’improvviso ci dimentichiamo di tutto. Sul crinale della montagna che abbiamo davanti si stende come un infinito serpentone la Grande Muraglia. Siamo nella leggenda!
Percorriamo gli ultimi chilometri in preda ad una grande eccitazione e quando arriviamo alla base della seggiovia che ci porterà a destinazione, schizziamo letteralmente verso la biglietteria, dove ci pongono una strana domanda: “come volete scendere?”.
Ci stiamo ancora interrogando su quale misterioso mezzo possa esserci, oltre alla funivia, per tornare indietro, che la bigliettaia ci porge un depliant, dal quale apprendiamo con sgomento che hanno costruito un toboga! Per la precisione, un lunghissimo scivolo in acciaio sul quale si scende a folle velocità seduti su delle specie di slitte con le ruote.
Rifiutiamo l’offerta inorriditi e, il tempo di superare lo sbarramento antiuomo dei venditori di paccottiglie, iniziamo la salita.
Il leggero sconforto dovuto al toboga ci passa all’istante osservando l’affascinante panorama delle montagne e la vista, sempre più ravvicinata, della Muraglia. E, quando finalmente mettiamo i piedi sopra le sue antiche pietre ci sentiamo davvero al ‘settimo cielo’. Lo spettacolo è talmente imponente che siamo portati a parlare sottovoce per non rompere l’incantesimo.
Una cosa del genere mi era capitata soltanto davanti al Grand Canyon, ma questa è un’altra storia.
Le condizioni della visita sono ideali. Non c’è praticamente nessuno e una provvidenziale nuvola copre il sole, evitandoci così anche una copiosa sudata durante le faticose scalate dei tratti più ripidi. La parte aperta al pubblico è ben restaurata, ma si vedono in lontananza dei tratti coperti dalle sterpaglie, alcuni semicrollati, che nella loro autenticità, sprigionano un fascino di eguale, se non superiore, intensità.
Prima di andare via ci fermiamo per una decina di minuti su una torretta ad ammirare incantati il paesaggio per l’ultima volta.
Mentre ci accingiamo a riprendere la seggiovia, Gianni azzarda timidamente: “Non è che vogliamo fare una piccola follia?”
Lo fulmino con lo sguardo, ma subito Miriam e Paola intervengono: “Dai, su. Proviamoci. Magari è divertente. E poi, quante persone conosci che possono dire di essere scese in toboga dalla Grande Muraglia?”
Nonostante i miei dubbi sulla ineccepibilità delle argomentazioni, in un attimo mi ritrovo seduto su un trabiccolo dal quale comincio a temere di rialzarmi con qualche osso rotto.
La discesa, però, è tanto irriverente, quanto divertente, e raggiungiamo Zhao felici come dei bambini. Visto che ormai ho rotto il ghiaccio, però, non mi sembra giusto fare le cose a metà, così compro una bella maglietta con su scritto “I have climbed the Great Wall” e me ne torno soddisfatto dagli altri.
Dopo esserci conquistati l’eterna gratitudine di Zhao con la semplice offerta di un gelato, ritorniamo in città, o almeno così pensiamo, perché lungo il tragitto, il nostro autista ci propone una sosta in un grande magazzino ‘casualmente’ incontrato. A gesti ci fa capire di aver compreso la parola ‘perle’ durante una nostra conversazione e sembra che questo sia il posto giusto per acquistarle.
Miriam e Paola non sembrano per nulla infastidite dalla sosta … anzi! Così ci tuffiamo nella nostra prima esperienza di shopping cinese.
Il grande magazzino in questione, che all’esterno appare come un moderno e banale palazzotto in cemento armato, all’interno segue fedelmente l’etimologia della parola: non è altro, infatti, che un magazzino di grandi dimensioni. Per meglio dire, sono cinque piani stracolmi fino all’inverosimile di ogni genere di merce, per la gran parte contraffatta. Ogni settore è dedicato a qualche articolo ed una serie di piccoli box, gestiti da chiassosi commercianti, si susseguono uno dopo l’altro.
Mentre Miriam si dirige, come attratta dalle sirene, verso il reparto ‘perle’, io mi faccio un giretto esplorativo. Di solito non amo caricarmi di acquisti nei primi giorni di viaggio, ma qui c’è davvero di che perdere la testa. E infatti la perdo.
Nel giro di pochi minuti acquisto un paio di magliette dal marchio famoso, veramente perfette, ma ad un decimo del prezzo delle originali. Mi reco da mia moglie per mostrarle orgoglioso questi miei primi successi, ma vengo subito riportato con i piedi per terra. Lei alla metà di quanto ho speso io ha già comprato una collana di perle e due collanine di giada!
Non è difficile comprendere come io sia totalmente negato per le contrattazioni, soprattutto se estenuanti come quelle che si svolgono qui. Avevo già avuto esperienze di questo genere in diversi paesi del mondo, ma l’alto grado di professionismo raggiunto dai cinesi in quest’arte credo sia ineguagliabile.
Qualunque sia il prezzo che tu abbia spuntato al termine della lunga battaglia contrattuale, te ne vai sempre con la netta sensazione di esserti fatto fregare. In alcuni casi la sensazione diviene certezza quando, allontanandoti, vedi i venditori ridacchiare fra di loro indicandoti con la mano.
Dopo un paio d’ore di shopping sfrenato, stanchi ma felici e, soprattutto, carichi di roba utile (poca) ed inutile (molta) di ogni genere, ritorniamo in albergo.
Abbiamo appena il tempo per una doccia e siamo di nuovo in giro per Pechino.
Nonostante la struttura della città non sia di grande interesse, il vero divertimento è osservare il comportamento della gente. Sulle prime siamo un po’ timorosi di urtarne la suscettibilità ridendo delle loro (per noi) strane abitudini, ma quando ci accorgiamo di essere noi stessi oggetto di uguale ilarità da parte loro, non ci facciamo più alcuno scrupolo.
Basta una breve passeggiata per sfatare la leggenda che vuole i cinesi riservati e silenziosi. I cinesi sono molto rumorosi. Comunicano fra di loro a voce altissima, tanto che, sulle prime, abbiamo sempre l’impressione che stiano litigando. Inoltre, ogni negozio ha un impianto stereo fuori dalle vetrine che spara musica a tutto volume per le strade. Il tutto, unito al traffico onnipresente, alle volte ci impedisce perfino di parlare fra di noi.
Se dovessi farmi un’opinione dei cinesi da questi primi passi pechinesi, direi che le loro principali occupazioni siano: mangiare, fumare e … sposarsi.
Per quanto riguarda le prime due, non ricordo di aver visto alcun cinese senza una scodella di cibo o una sigaretta in mano (sarei pronto a giurare che il grande smog di Pechino sia dovuto più al fumo delle sigarette che agli scappamenti delle auto). Alle volte entrambi gli articoli contemporaneamente. Ma la vera curiosità di cui siamo testimoni è la inusuale presenza di un gran numero di agenzie specializzate nell’organizzazione di matrimoni. Sono dei grandi saloni divisi in tanti piccoli salottini dove alle coppiette vengono illustrati tutti i particolari di un moderno matrimonio occidentale. Addobbi floreali, torte nuziali, automobili di rappresentanza. Sembra che i cinesi ne vadano matti.
Un’altra cosa che balza immediatamente agli occhi, oltre al personalissimo abbigliamento dei ragazzi, creato con la sovrapposizione casuale di capi di stile occidentale, è che la gente non sembra particolarmente soddisfatta dei propri capelli lisci e neri (per i quali, per inciso, mia moglie farebbe follie), per cui li massacrano con improbabili tinture bionde e, nel caso delle donne, con permanenti che non attecchiscono e lasciano le loro chiome, più che ricce, penosamente arruffate.
Per quanto riguarda la tanto temuta abitudine di sputare per terra dovunque e comunque, minuziosamente descritta in tutte le guide, sembra che il governo abbia deciso di estirparla una volta per tutte, comminando pesanti multe ai trasgressori. In effetti bisogna dire che nelle strade cittadine il fenomeno è contenuto, ma appena ci si sposta in zone più periferiche e, soprattutto, nelle città vecchie, il tiro al bersaglio è ancora notevole. Col tempo diverremo dei veri professionisti nel distinguere l’intensità del suono prodotto dal ‘raschio’ preparatorio. Più è vicino, maggiore è il pericolo di essere colpiti.
Siamo intenti nelle nostre considerazioni, quando ci imbattiamo in un gruppo di una ventina di aspiranti parrucchieri, disposti ordinatamente sul marciapiede davanti al salone. Hanno tutti una spazzola in mano e ripetono all’infinito i movimenti dell’istruttore, posizionato di fronte a loro. Dire che la scena è inusuale è un puro eufemismo, ma i passanti non ne sembrano minimamente sorpresi.
E’ la prima volta in vita mia che trovo divertente una ‘passeggiata per il centro’.
Per le strade c’è una tale quantità di gente che va e che viene da far apparire impossibile che tutti possano avere una qualche occupazione. E a ben guardare, si ha l’impressione che per aumentare l’occupazione di una così impressionante mole di persone, i cinesi si siano ingegnati nel creare un serie di attività del tutto superflue. Ad esempio, appostati nei pressi dei semafori ci sono due omini con una bandierina rossa, uno per ogni lato della strada, il cui compito (già di per sé assurdo) è quello di controllare che tutti i pedoni rispettino il semaforo, ma in realtà non fanno altro che agitare la loro bandierina per tutta la giornata assistendo disinteressati alla totale anarchia di pedoni ed auto. O ancora, davanti ad ogni ristorante stazionano permanentemente delle persone addette esclusivamente all’apertura della porta ai clienti che entrano e che escono. E così via.
Mentre avanziamo per le strade, avvisto un negozietto di dischi. La musica è una delle mie grandi passioni e quando viaggio trovo divertente acquistare CD autoctoni dei più svariati generi. Anche qui in Cina non mi posso lasciare sfuggire questa occasione, quindi entro e chiedo di conoscere i musicisti che si trovano al top delle classifiche locali.
Il negoziante conosce solo alcuni termini, tipo pop, rock, jazz, ecc., ma è più che sufficiente per instaurare un proficuo dialogo. All’inizio mi pare un po’ sorpreso, forse sono il primo occidentale che mostra di interessarsi agli idoli del posto, ma dopo essersi accertato di aver capito bene, con un lampo di soddisfazione negli occhi, comincia a farmi ascoltare svariati CD di artisti che, mi pare di capire, sono sulla cresta dell’onda. I brani non sono affatto sgradevoli, tutt’altro, anche se le canzoni sono, chiaramente, in cinese. Devo dire che fa una certa impressione ascoltare delle melodie straordinariamente simili a quelle di casa nostra, cantate in questa lingua melodiosa ma incomprensibile. Compro tre CD, a qualcosa come 3 euro l’uno, e raggiungo gli altri in un negozio di calzature, dove, stranamente, Miriam se ne sta in un angolo disinteressata.
“Che ti è successo? Stai male? Non hai comprato neanche un paio di scarpe”
“Ti sembra facile. In tutto il negozio non ce n’è un paio del mio numero! - mi risponde con uno sguardo depresso – E’ come un incubo, ci sono scarpe che non costano niente e non posso comprarle!”.
Questo luogo comune almeno è confermato. I cinesi sono piccoli.
Avvisati preventivamente da Francesco dell’abitudine locale di consumare la cena piuttosto presto, nonostante siano solo le sette, cominciamo a guardarci attorno per cercare un ristorante. Non abbiamo voglia di allontanarci troppo, così ci dirigiamo verso un locale, attratti più dal menù esposto che dalla sua estetica complessiva. La sala interna, infatti, sembra strettamente imparentata con quella di uno dei tanti ristoranti cinesi di casa nostra, dall’arredamento un po’ raccogliticcio e dall’ambiente freddino.
Dopo aver effettuato le nostre ordinazioni, in modo pressoché casuale, da un menù di almeno cinquanta pagine, le cameriere cominciano a parlare fra di loro indicandoci sfacciatamente e, senza alcuna remora di sorta, scoppiano in una fragorosa risata. Scena, questa, che, da quando siamo arrivati in Cina, si ripete con preoccupante frequenza.
E’ ovvio che abbiamo fatto qualcosa di sbagliato. Ma cosa?
La risposta non tarda a giungere: ognuno dei piatti che abbiamo ordinato è già dosato per quattro persone, ed avendo effettuato circa due ordinazioni a testa, ci ritroviamo a dover consumare la bellezza di una decina di portate cadauno!
Al termine di questo pasto simil-nuziale, peraltro buonissimo, ma che siamo costretti a lasciare in gran parte sul tavolo, io e Gianni ci vogliamo concedere l’assaggio del Maotai, un liquore locale molto rinomato, ma la cameriera, venuta a conoscenza delle nostre intenzioni, tenta misteriosamente di dissuaderci. Memori della figuraccia iniziale, non vorremmo incorrere in chissà quale nuova brutta sorpresa, così stiamo quasi per recedere dal nostro proposito, quando la cameriera ci indica con faccia angosciata il prezzo segnato sul menù: 25 yuan (2,5 euro) a bicchiere. E’ allora che capiamo. Non ci vuole dare il liquore perché per lei costa troppo!
Rassicuriamo la ragazza sulla nostra capacità di poter sopportare un tale esborso e ci beviamo in un sol sorso il bicchierino, ottenendo, così, un pronto riscatto ai suoi occhi.
Il conto ci fa comprendere le preoccupazioni della cameriera, infatti, nonostante i ‘costosi’ bicchieri di liquore, paghiamo 6 euro a testa. Dopo le mazzate continue a cui siamo abituati in Italia, è una vera pacchia.
Mentre torniamo in albergo veniamo a conoscenza di un’altra strana abitudine locale. Sembra che i cinesi amino farsi i capelli a tarda sera. I negozi di parrucchiere che incontriamo lungo la strada, non solo sono tutti aperti, ma si presentano affollati di avventori seduti ordinatamente ad attendere il loro turno.
“Ma sono matti? Vanno dal parrucchiere prima di andare a dormire - obietta incredula Miriam – Domattina si sveglieranno con i capelli dritti in testa!”
3° Giorno: Pechino - Suzhou
Oggi, il ‘nostro’ programma prevede la visita al Tempio del Cielo. Anche qui, più che di un tempio isolato, si tratta di un complesso molto vasto comprendente più templi immersi in un gigantesco parco. A parte le strutture architettoniche, interessanti per i loro significati simbolici, ma dall’estetica piuttosto standardizzata, il vero motivo di interesse del sito lo troviamo nella gran quantità di persone che affolla il parco, ognuna intenta a praticare una attività fisica o ricreativa differente, ma sempre di grande fascino od originalità. La prima persona che incontriamo, tanto per dare un’idea, è un signore in mutande e canottiera che muove il bacino come se stesse facendo roteare un hula-hop virtuale, al fianco del quale un gruppo di signore attempate si esibisce in un articolato coro polifonico. Poco più in là abbiamo alcuni anziani che eseguono all’unisono, come legati da una corda invisibile, i lenti ed ipnotici movimenti del Tai-Chi. È tutto un susseguirsi di strane attività, alcune affascinanti, come quella di due giovani signore che, con in mano una specie di racchettone da mare colorato, invece di colpire la pallina, se la passano lentamente ammortizzandola con gesti plateali, altre veramente incomprensibili, come quella di un gruppo consistente di persone che, seguendo gli ordini perentori impartiti da un registratore portatile, con grande serietà e concentrazione si allungano ritmicamente le orecchie!
Gianni, nella vita medico, guarda incuriosito, forse pensando di inserire questa terapia tra quelle da lui abitualmente praticate.
E poi ancora, suonatori di pipa, uno strano strumento a corda suonato come un violoncello; giocatori di Go accucciati attorno alle loro scacchiere; persino due signore, una vecchia ed una giovane, che intonano arie di operetta accompagnate dall’immancabile registratore.
Siamo così rapiti che dopo un’ora dal nostro ingresso, non abbiamo ancora iniziato la visita dei templi.
All’uscita incontriamo l’ennesimo strano personaggio: un vecchio il quale gira con un pennellone gigante che, intinto continuamente in un secchio d’acqua, utilizza per scrivere a terra degli eleganti idiogrammi cinesi. Dopo tanto assistere, non resisto, chiedo al signore di provare e, sotto il suo sguardo divertito, mi lancio nella composizione di una frase in italiano che sigillo con un mio autografo.
E’ ormai giunto il momento di abbandonare momentaneamente Pechino (ci torneremo alla fine del viaggio) per dirigerci verso Shanghai, e di qui a Suzhou, a casa di Francesco.
(1 - CONTINUA)
venerdì 9 marzo 2007
LONDRA ... VAL BENE UNA MESSA !
(Ma non era Parigi?)
QUANDO: Pranzo di Natale.
DOVE: Casa di mia zia Franca.
CHI: Io, mia moglie Miriam, i miei genitori, i miei fratelli Barbara e Marco, mia cugina Angela e mia cognata Irene. Oltre, ovviamente, a mia zia.
Zia: “Avete sentito del volo diretto per Londra che hanno messo dal nostro aeroporto? Sembra che i biglietti li regalino!”
Io: “Si, bisognerebbe approfittarne”
Zia: “Allora approfittiamone! Io non ci sono mai stata”
Io: “Sarebbe carino. Ma quando?”
Zia: “Subito. Informati oggi stesso. L’albergo lo pago io”
Io: “… Per tutti?”
Zia: “Si, per tutti. Una volta nella vita voglio fare un viaggio con tutta la famiglia riunita”
Io: “Sarà fatto!”
Partenza
E’ difficile da credere, ma dopo appena dieci giorni, siamo tutti in aeroporto. Riuscire a coordinare gli impegni di nove persone in così breve tempo sembrava un’impresa disperata, ma la frase magica “l’albergo lo pago io” ha compiuto il miracolo.
Conosco bene Londra. Ci sono stato molte volte, ma questa è diversa. C’è la mia famiglia al completo. Sarà terrificante. Sarà bellissimo.
Manca un’ora alla partenza ed i miei genitori sono in aeroporto già da un’ora e mezza. Mia madre non prende l’aereo da trentacinque anni ed è terrorizzata dall’idea di perderlo. Mentre mio fratello provvede a illustrarle le differenze tra un velivolo ed un autobus, comincio a raccogliere il gruppo per guidarlo verso il check-in, ma mi accorgo con una certa inquietudine dell’assenza di qualcuno.
La zia Franca, naturalmente.
“Dov’è tua madre?” chiedo a mia cugina, ostentando finta indifferenza.
“Non lo so. Mezz’ora fa mi aveva detto che stava arrivando”
La risposta non mi tranquillizza, così lascio a mia sorella il compito di espletare le pratiche per il gruppo e mi fermo ad attendere la zia.
Finalmente, dopo un quarto d’ora, quando il panico comincia già ad assalirmi, la vedo superare le porte di vetro dell’entrata.
“Ho perso l’autobus e ho dovuto chiamare un taxi” mi dice con il fiatone.
Entriamo di corsa e davanti al controllo elettronico mio padre è ancora fermo a discutere con un poliziotto. Al di là della barriera tutto il resto del gruppo osserva tra il divertito ed il preoccupato.
“Che fai lì? Pensavo foste già entrati” gli chiedo incuriosito.
“Non voglio passare sotto quel coso, ho paura per il mio pacemaker” è la sua lapidaria risposta.
Interpellato il poliziotto, vengo a sapere che la cosa non gli è mai capitata finora e non sa come comportarsi. Dopo alcune telefonate e la visita del suo superiore, riusciamo a risolvere il caso pacemaker con una semplice perquisizione manuale.
Intanto, però, in virtù della spietata legge del low-cost, per la quale ‘chi primo arriva, meglio alloggia’, gli altri passeggeri si sono ormai tutti imbarcati e dobbiamo accontentarci degli ultimi posti rimasti.
“Non soffrirò il mal d’aria qui dietro?” azzarda la zia, che viene fulminata da otto sguardi glaciali.
Il decollo dell’aereo è un primo sorprendente successo, che mi godo con un certo compiacimento.
Il volo è nella norma, ma, giunti nei pressi della nostra destinazione, una spessa coltre di nuvole copre ogni visuale e fa sussultare in modo fastidioso l’apparecchio. E questo non è bene.
Prima di partire avevo telefonato ad una mia cara amica che vive a Londra per chiederle che tempo facesse. Da noi aveva nevicato ed eravamo tutti un po’ preoccupati.
“Qui fa molto freddo, ma non c’è problema. A Londra non nevica mai!” era stata la sua rassicurante risposta.
Ovviamente, sull’aereo il pilota ci informa che atterreremo a Stansted con mezz’ora di ritardo perché … stanno finendo di liberare la pista dalla neve.
Mia sorella, l’interprete del gruppo, incautamente traduce ad alta voce le sue parole, scatenando la reazione della parentela nei miei confronti.
I quaranta minuti di treno, occorrenti per arrivare dall’aeroporto in centro, trascorrono in un baleno. I componenti del nostro variegato gruppo, chi per un verso, chi per un altro, sono emozionati ed io, che passo il tempo guardando affascinato l’insolito spettacolo della città innevata, ho un motivo di apprensione del quale non ho ancora fatto partecipe nessuno. L’hotel che ho prenotato, infatti, è un ‘saldo’ post-natalizio, del quale non ho referenze certe, scovato da un agente di viaggio mio vecchio amico, che spero vivamente mi consideri ancora tale.
Arrivati in stazione, ci aspetta ancora un tratto in metropolitana durante il quale riusciamo a non perderci, cosa che viene salutata da tutti come un evento insperato. Visibilmente soddisfatti, usciamo all’aria aperta, restando paralizzati all’istante.
“Fa freschetto, eh!?” ironizza mia zia mentre infila in testa un colbacco russo che aveva finora tenuto nascosto.
In realtà è in corso una vera e propria tormenta di neve e c’è un freddo polare!
Prestando molta attenzione a dove mettiamo i piedi, tra neve e lastre di ghiaccio, raggiungiamo l’hotel. Non sembra male. E anche la zona è carina. Si trova proprio di fronte ai Kensington Gardens. Per ora sono salvo.
I miei genitori sono un po’ stanchi, il programma però è implacabile. Tra mezz’ora dobbiamo essere in centro. Naturalmente è un’illusione. Mia zia, infatti, non soddisfatta della propria stanza, trova il modo di impiegare quasi un’ora in una discussione a gesti con il portiere dell’albergo.
Alla fine la spunta lei (non c’era da dubitarne), ma quando riusciamo a metterci in marcia, tutti i negozi stanno chiudendo le saracinesche. Non ci resta che una puntata per le foto di rito a Piccadilly Circus illuminata, quindi decidiamo di andare a cena, riservando le forze per il giorno seguente.
Quest’ultima, apparentemente banale, operazione, tuttavia, per il nostro numeroso ed eterogeneo gruppo diventa subito un compito piuttosto complesso. Così, dopo esserci diretti a Soho, quartiere ad alta densità di locali, diamo vita ad una penosa ‘via crucis’ tra un ristorante e l’altro. Il desiderio comune sarebbe quello di mangiare qualcosa di insolito, ma non riusciamo a trovare un accordo soddisfacente. Il cinese piace a mia sorella, ma non a mia madre. Il greco incontra i favori di mio padre, ma non di mia zia. Il pub inglese entusiasma mio fratello, ma non mia cognata, e così via. Dopo aver passato in rassegna tutto il panorama gastronomico mondiale, stanchi ed infreddoliti, cediamo in modo ignominioso e ci infiliamo nel primo ristorante italiano che incontriamo per strada.Come è ormai consuetudine in tutto il resto del mondo, di italiano nel locale c’è solo il nome, ma devo dire che, forse complice la fame, riesco a mangiare con gusto la pizza pakistana e le bruschette caraibiche.
1° Giorno
La mattina ci troviamo tutti di buon’ora nella sala della colazione. Il buffet propone un breakfast all’inglese ed io, come sempre mi succede appena poso piede in terra straniera, vengo preso da una specie di frenesia culinaria che mi spinge ad ingurgitare schifezze di ogni genere. Quando sono a casa, la mia colazione abituale consiste in una tazza di thè accompagnata da un biscotto, uno solo, perché due mi creano seri problemi intestinali, qui, però, quello stesso intestino, per un fenomeno scientificamente inspiegabile, non prova nessun imbarazzo nell’accogliere con soddisfazione: cappuccino, succo d'arancia, toast con burro e marmellata, fiocchi d'avena al cioccolato, uova strapazzate con pancetta abbrustolita, salsicce e … fagioli in umido.
Anche gli altri, però, approfittano volentieri. Forse anche troppo. Mia zia e mia sorella, infatti, fanno incetta di panini che riempiono di salumi e formaggi vari e, dopo averli sommariamente incartati in fazzolettini di carta, forse temendo una perquisizione corporale da parte del personale di sala, li infilano furtivamente nelle tasche del mio giaccone, quindi se ne vanno con fare indifferente.
Mentre gli altri si recano in camera per finire di prepararsi, io e Miriam ne approfittiamo per fare due passi nel parco di fronte all’albergo. La giornata è splendida. C’è il sole, il cielo è terso e, ovviamente, il freddo è bestiale.
Lo spettacolo del Kensington Gardens innevato è notevole. Come è notevole il Kensington Palace, già residenza di Diana Spencer, passando davanti al quale, riconsidero il concetto di ‘principessa triste’. Dopo una puntatina al suggestivo Round Pond ghiacciato, facciamo ritorno in albergo, dove troviamo tutta la compagnia pronta per partire.
Sto per accingermi a comunicare la prima parte del mio dettagliato programma mattutino, quando vengo informato che durante la mia breve assenza si è svolta una riunione segreta, durante la quale sono stato inopinatamente bypassato. I ‘vecchietti’ del gruppo sentono freddo (mio padre, per la prima volta nella vita, sfoggia con suo disappunto e l’ilarità di tutti, una coppoletta che mia madre lo ha obbligato a mettere per ripararsi la testa) e non se la sentono di camminare tutta la mattina, così hanno democraticamente deciso di effettuare un poco avventuroso, ma molto pratico, giro della città su un autobus turistico a due piani. Hanno persino già comprato i biglietti.
Per protesta, mi dissocio dal gruppo e salgo al secondo piano (scoperto!) del mezzo, a meditare sul tempo perso per stilare il mio favoloso itinerario di viaggio.
Dopo un’oretta di girovagare, devo ammettere che, a parte un principio di congelamento dovuto alla postazione esterna, il giro è piacevole. In definitiva, sarà turistico quanto si vuole, ma per chi non ha mai visto la città, soprattutto se non più giovane, è la soluzione ideale per farsene un’idea d’assieme. I ‘vecchietti’, infatti, ne sono entusiasti.
Durante il giro mi rendo conto di quanto Londra sia cambiata nei miei anni di assenza. Ci sono gru dappertutto ed imponenti nuovi grattaceli si stagliano nello skyline cittadino. Mia moglie, che purtroppo è architetto, non sta più nella pelle, e con il sostegno di Angela, sua esimia collega, mi costringe a scendere nella City per accompagnarla a dare un’occhiata da vicino alle ultime realizzazioni architettoniche. Raggiungeremo il resto della comitiva più tardi a Covent Garden.
Dopo aver indugiato ‘molto’ a lungo davanti al nuovo, avveniristico grattacielo del celebre architetto Norman Foster (una strutura dalla inequivocabile forma fallica, che qui hanno già soprannominato, con una certa bontà d’animo, ‘il cetriolo’), superiamo il Tower Bridge, maestoso simbolo della città, dal quale abbiamo una bella vista sulla storica Tower of London, ormai soffocata dalla crescita smisurata del quartiere retrostante, quindi facciamo un salto all’interessante Design Museum, dove mia moglie acquista delle geniali bacchette cinesi ‘facilitate’. Sono unite assieme da una molla e si azionano come una stravagante pinza gigante (nel nostro viaggio in Cina faranno furore). E’ qui che, mettendo le mani nella tasca alla ricerca del portafoglio, ne tiro fuori sconcertato una serie di sconosciuti panini che, con mio grande imbarazzo, sono costretto ad appoggiare sul bancone della cassa, provocando uno sguardo beffardo della cassiera.
Proseguiamo per il rinato South Bank e ad ogni passo incontriamo qualche meraviglia. La deliziosa Hays Galleria, un vecchio dock portuale abilmente ristrutturato, il nuovissimo ed audace municipio di Londra, anch’esso di Norman Foster, il reinventato Globe Theatre di Shakespeariana memoria, Vinopolis, curioso museo del vino, la Tate Modern, grandioso museo che visiteremo domani, la Oxo Tower, palazzo industriale ristrutturato, oggi sede di laboratori artistici e di un fantastico ristorante panoramico, il South Bank Centre, orribile centro culturale che comprende gallerie, teatri e musei, la London Eye, assurda ruota da luna-park immensa e costosissima, per finire con la colossale County Hall, per anni in cerca di utilizzo, oggi sede del London Aquarium e di svariati alberghi e ristoranti.
Stanchi, ma soddisfatti, ci infiliamo in metropolitana per andare a riunirci al resto del gruppo.
Giunti sul luogo convenuto, veniamo a conoscenza di una ulteriore divisione. Mentre i miei genitori e mia sorella ci hanno raggiunti, gli altri sono rimasti a girovagare per Westminster.
Ne approfittiamo per fare una passeggiata nel coloratissimo e chiassoso Covent Garden, anticamente mercato dei fiori ed oggi sede di negozietti vivaci e alla moda. Anche se continua a fare molto freddo, la bella giornata ha invogliato la gente ad affollare la piazzetta antistante.
Si sta avvicinando l’ora di pranzo, così, come aperitivo, ci concediamo una jacket potato, gustosa patata cotta al vapore e ripiena di salse di ogni genere. Mio padre, più che dalla novità gastronomica rimane colpito dal prezzo. “Sette sterline per una patata? Ma sono matti?”
Dato che i transfughi non si vedono ancora, stabiliamo di andare a pranzo per conto nostro. Il gruppetto, però, memore del vano girovagare della sera precedente, è un po’ indeciso. Per rompere gli indugi, prendo in mano la situazione e mi dirigo verso un locale la cui insegna mi ispira fiducia, ma che, solo all’interno, scopriremo trattarsi di una specie di fast-food orientale. I miei genitori tengono subito ad informarmi di odiare una sola cosa più del fast food: la cucina orientale. Sono però troppo stanchi per mettersi di nuovo a cercare e si abbandonano rassegnati al loro destino.
Il locale è moderno, dall’atmosfera informale e con un arredamento estremamente funzionale. Ci mettono a sedere, infatti, su delle panche comuni in legno. Mio padre, una volta accomodatici, mi chiede distrattamente. “A proposito. Lo sai cosa veramente non sopporto in un ristorante?”
“No” rispondo timoroso.
“Le panche comuni” risponde con una punta di sarcasmo nella voce.
“Ah” è la mia unica replica.
Le ordinazioni, come era prevedibile, sono una vera tortura, tra piatti dai nomi inpronunciabili e spiegazioni che nessuno capisce, mia madre impiega mezz’ora per scegliere una zuppa. La sua faccia all’arrivo del piatto rimarrà uno dei ricordi più divertenti del viaggio.
“Sembra sciacquatura di piatti” è il suo commento prima di accantonare definitivamente la portata.
Quando usciamo, finalmente arrivano i dispersi. La zia ci assale entusiasta “Avete visto le nuove costruzioni di Forrester?” chiede alla figlia.
“Foster, mamma, Foster. Quell’altro sta in Beautifull!” le risponde Angela rassegnata.
Dopo tanta cultura è giunto il momento di un po’ di sano shopping. E dove, se non da Harrods?
La metropolitana ci deposita proprio ai piedi del maestoso palazzo di Knightsbridge ed entriamo senza indugio nelle sue viscere.
All’ingresso veniamo accolti da un tabernacolo di dubbio gusto su cui campeggiano le foto di lady Diana e Dodi Al Fayed circondate da coroncine di fiori, uccelli dorati e finti ceri. Neanche a dirlo c’è la fila per farsi fotografare davanti, opportunità che mia cognata non si lascia sfuggire.
Tralasciamo i piani superiori e ci gettiamo a capofitto nelle sale del piano terra: quelle delle cibarie, ovviamente.
Ogni immaginazione a riguardo è semplicemente riduttiva. Con grande difficoltà una mente umana potrebbe concepire una simile quantità e qualità di vivande, esposte in un tale contesto di lusso sfrenato. Solo i prezzi frenano la nostra corsa all’acquisto. Ma l’evento che renderà memorabile la visita di Harrods sarà un altro. Sto attentamente valutando l’acquisto di una marmellata, quando, da una scala mobile al mio fianco, attorniato da una decina di gorilla, spunta l’inconfondibile figura di Mohammed Al Fayed, padre di Dodi, nonché proprietario dei magazzini. Mentre mi passa a fianco, mormoro alla zia Franca, consapevole della sua passione per i personaggi famosi, “Zia, guarda, c’è Al Fayed”. La zia si volta, ma il gruppetto è già passato. “Dove, dove?” mi urla nell’orecchio e, senza attendere la mia risposta, si butta alla rincorsa del personaggio. Sbalordito urlo agli altri ”Fermiamola, altrimenti le guardie del corpo la fanno fuori”. Così ci lanciamo tutti all’inseguimento della zia. La troviamo, senza più fiato, qualche reparto più in là. Ci dice che è riuscito a vederlo, ma dopo averlo seguito per un po’, si è dovuta fermare perché non ce la faceva a stargli dietro. Naturalmente, per il resto della giornata non ci parlerà d’altro. Ma non può immaginare che non sarà l’unico incontro importante del viaggio.
Usciti da Harrods tralasciamo la metropolitana e con una rilassante passeggiata percorriamo tutta Piccadilly, inoltrandoci per il quartiere di St. James, sede dei più famosi club londinesi per gentiluomini, alcuni dei quali, ancor’oggi, non permettono l’ingresso alle donne. Giudicati anacronistici dai più, rimane famoso il trafiletto che il Times, principale giornale di Londra, con tipico sarcasmo anglosassone, pubblicò sulle sue colonne: “Dopo un lungo periodo di ristrutturazione, ha riaperto ieri il Reform Club. I membri sono stati risistemati nelle rispettive posizioni”.
Visto che siamo in zona, una visita da Fortnum & Mason, con i suoi ambienti eleganti ed i commessi in frac, è d’obbligo. Pur se le cinque sono ormai passate, ci fermiamo a fare una pausa nell’elegante sala da thè, tra silenziose vecchine, probabilmente parte dell’arredamento, e turisti un po’ più esuberanti.
Resta il tempo per un giro tra i teatri del West End ed arriviamo al ristorante che sembra avere messo tutti d’accordo. Qualche ora prima avevamo infatti notato una sua pubblicità all’interno della metropolitana, ed il particolare che ci aveva maggiormente colpito era stata la promessa di un forte sconto sul prezzo finale, qualora avessimo prenotato per le sei del pomeriggio.
“Qualcuno di voi ha dei problemi nel cenare alle sei?” era stata la domanda retorica di mio padre.
Ne era seguito un significativo silenzio.
Il locale si presenta con una struttura davvero originale. Le sale si trovano in ambienti sotterranei ai quali si accede mediante un montacarichi che passa sopra le gigantesche cucine a vista. Si siede su panche comuni, a mò di refettorio, ed infatti i camerieri sono tutti vestiti con un saio da frate.
Mentre ci avviciniamo alla tavolata, mio padre mi esclama a bruciapelo.
“Lo sai cosa veramente non sopporto in un ristorante?”
“Lo so, lo so! Ma stavolta l’idea è stata tua”La cucina è di estrazione belga, nazione che non brilla per l’originalità dei suoi cibi, ma dopo un paio di birre nessuno se ne lamenta. Persino i miei genitori, dopo lo shock del pranzo, paiono entusiasti delle cozze e patatine che invadono il nostro tavolo.
2° Giorno
Il nuovo giorno si apre all’insegna di un cielo plumbeo. Se non altro il freddo si è attenuato.
Stamattina visiteremo la nuova Tate Modern. Molti tratti di marciapiede sono ghiacciati, così camminiamo in fila indiana, stile cordata. Come se non bastasse, dobbiamo affrontare la follia della guida a sinistra. A Londra è facile riconoscere i turisti. Sono quelli che quando devono attraversare la strada hanno l'occhio terrorizzato di chi sta per affrontare una missione suicida. Li vedi che si affacciano con circospezione dal marciapiede e, voltandosi a destra e a sinistra, cercano di capire da dove arriverà l'insidia. Probabilmente a causa dell'alta mortalità di stranieri sulle loro strade, gli inglesi, che per queste cose sono molto pragmatici, hanno dipinto sul bordo dei marciapiedi una serie di scritte, seguite da frecce, per indicare il lato verso il quale bisogna rivolgere lo sguardo. In caso di difficoltà, comunque, esiste sempre una via di salvezza: le strisce pedonali, che qui non sono, come da noi, un bersaglio disegnato sulla strada per mirare meglio gli ignari pedoni, ma un segnale venerato quanto le vacche sacre in India. Se volete divertirvi un pò, all'arrivo di un'automobile, mettete un piede in strada facendo finta di voler attraversare sulle strisce, assisterete a frenate degne del miglior Gran Premio di Formula Uno.
Ma torniamo a noi. La Tate Modern (succursale della più nota Tate Gallery) è un museo di arte moderna ricavato dalla ristrutturazione di una vecchia centrale elettrica in disuso. Si trova a Southwark, nel South Bank, la riva sud del Tamigi. Per raggiungerla attraversiamo il fiume sul nuovo Millenium Bridge, bellissimo ponte pedonale realizzato dall’onnipresente Foster “Forrester”, come lo abbiamo ormai ribattezzato.
Superata l’entrata dell’edificio, veniamo accolti da un immenso salone, totalmente sgombro, che funge da spazio espositivo per opere colossali. Nel bel mezzo, l’attenzione di tutti viene attratta da una crepa gigantesca che si allarga procedendo verso il centro del pavimento.
Dopo un primo istante di disorientamento, io e Angela leggiamo che si tratta dell’opera di un’artista colombiana. Ma prima di poter avvisare il resto del gruppo, la zia Franca decide di esternare le proprie perplessità.
“Non è stato un gran bel restauro. Si è già rotto tutto il pavimento” è il suo commento.
“Guarda che questa è un’opera d’arte - la incalza la figlia imbarazzata – Vuole rappresentare la frattura che la civiltà moderna sta portando nelle varie società”
“Sarà, ma nella frattura della civiltà moderna quel signore ci stava per finire dentro” replica la zia indicando un anziano signore che cerca di rialzarsi dopo essere inciampato nella crepa.
Liquidata così l’installazione d’apertura, ci inoltriamo nei piani superiori per visitare le sale che accolgono la collezione permanente. Come tradizione dei grandi musei londinesi, l’ingresso è gratuito e questo incoraggia anche i più refrattari all’arte moderna.
Degno di nota, il commento, molto british, dell’audioguida nella sala dell’artista tedesco Beuys: un lungo silenzio precede un significativo “Non c’è bisogno di commento”.
All’uscita, il gruppo si divide nuovamente. Stavolta in tre parti. Una fazione, condotta da mia zia e che comprende mia cugina, mio fratello e mia cognata, vuole andare a visitare la cattedrale di St. Paul, che si trova lì di fronte, la seconda, capitanata da me, opta per il quartiere di Bloomsbury, mia sorella, infine, si dirige verso Oxford Sreet per far visita ad un suo amico che lavora da quelle parti.
Bloomsbury è il quartiere della città che preferisco, oltre che per la presenza dello stupendo British Museum, anche perché è un compendio della Londra iconograficamente più conosciuta, quella a cavallo tra la fine del ‘700 ed i primi del ‘900. Insomma, la Londra che ti aspetti di vedere. E’ piacevole anche solo aggirarsi senza meta tra le sue strade. In ogni angolo vi si respira cultura e storia. La splendida Bedford Square, con le case georgiane perfettamente conservate e le cancellate nere sempre perfettamente verniciate, l’imponente Russel Square, con il bel parco al centro ed i suoi edifici vittoriani in mattoni rossi, Bloomsbury Square, sede del mitico Bloomsbury Group di Virginia Woolf.
Parcheggiati i miei genitori al British Museum, ci dirigiamo verso uno di quei gioielli poco conosciuti di Londra, che da anni desideravo visitare, ma per un motivo o per un altro non mi era mai riuscito: il sir John Soane Museum.
Il museo, in realtà è la casa dell’eccentrico John Soane, importante architetto ottocentesco con l’hobby del collezionismo. Dall’esterno non suscita grande impressione, sembra una delle tante villette a schiera che circondano il grazioso slargo di Lincoln’s Inn Fields, ma una volta entrati si rimane disorientati. Le stanze sono così sovraccariche di oggetti, sculture, quadri, libri, reperti archeologici di ogni epoca (perfino un vero sarcofago egizio!), che ad ogni movimento si ha il terrore di far cadere qualcosa, procurando danni inestimabili. Il tutto si snoda in una serie di ambienti che, grazie ad accorgimenti ed illusioni architettoniche, sembrano infiniti.
Siamo storditi e una volta fuori ci voltiamo istintivamente per ridare un’occhiata all’esterno del fabbricato.
“Ma dove accidenti le hanno infilate tutte quelle stanze!” è il commento tecnico di Miriam mentre si allontana.
Recuperati i genitori, entusiasti per avere visto la ‘Stele di Rosetta’ e la nuova, splendida, cupola di … Norman Foster, partiamo alla volta di Leicester Square, luogo dell’incontro con i transfughi.
Arriviamo per primi, così ci dedichiamo per un po’ ad uno dei più divertenti passatempi londinesi, quello che qui chiamano people watching e che può essere tradotto come: osservare il passeggio.
Credetemi, a Londra non c'è spettacolo migliore di questo. In un’oretta vedrete passare più gente alla moda, fuori moda, colorata, colorita, assurda, eccessiva, normale, sexy, elegante, kitsch, ridicola, di quanta non ne abbiate mai vista in tutta la vostra vita. Tanto per rendere l'idea, di fronte alla nostra panchina c’era un tizio vestito da Babbo Natale, con una parrucca verde in testa, che ballava il tip tap. Giuro.
Quando tutti gli altri ci raggiungono sono ormai le quattro. Nessuno ha pranzato, ma io e mio fratello sembriamo gli unici ad essere affamati, così, come topi attratti dalle note del pifferaio magico, ci dirigiamo verso un chioschetto in fondo alla piazza per assaporare quel trionfo del kitsch gastronomico, prelibato e ipercalorico che risponde al nome di 'fish and chips'. Messo a disagio dalle occhiate continue di ‘quelli che non avevano fame’, mio fratello commette l’errore di chiedere “Non è che volete provare?”. E’ un assalto. Le nostre porzioni finiscono in un batter d’occhio e dopo cinque minuti ci troviamo tutti appollaiati uno di fianco all’altro, chi sulle panchine chi seduto per terra, a sgranocchiare cartocci giganteschi di pesce e patatine fritte.
Mia zia, tra un boccone ed un altro, trova il tempo di raccontarci la spedizione del suo manipolo: constatato che per entrare a St. Paul si doveva pagare il biglietto, hanno girato i tacchi e si sono diretti verso Trafalgar Square, dove hanno visitato la National Gallery. Non ancora sazi, hanno fatto una visita ai negozi di Regent Street ed alla ormai non più mitica Carnaby Street.
La giornata fin qui trascorsa è stata piuttosto stancante, così un inizio di mal di schiena mi fa proporre una sosta ristoratrice in qualche pub. Sono proprio gli ‘arzilli vecchietti’, però, dei quali avevo sottovalutato le capacità di resistenza, a rifiutarsi. Vogliono continuare la visita.
“Londra val bene una messa!” sentenzia mia zia.
“Ma quella non era Parigi …” accenna mia sorella, subito messa a tacere da Marco.
“Paga la zia, quindi ha sempre ragione!”
Ci accordiamo quindi per un salto a Chelsea. Scendiamo con la metro a Bond Street, dove mio padre si accorge di aver ‘accidentalmente’ lasciato sulla carrozza della metropolitana l’odiato berretto. Intanto mio fratello, grande appassionato di Sherlock Holmes, ci abbandona, accompagnato dalla moglie, per indirizzarsi verso Baker Street alla ricerca di indizi. Noi attraversiamo l’elegante quartiere di Mayfair, una volta sede dell’aristocrazia londinese, ora lottizzata da sceicchi arabi con gigantesche Rolls Royce parcheggiate davanti casa e raggiungiamo Hyde Park Corner. Qui ci accorgiamo che c’è una discreta folla assiepata lungo Park Lane, c’è anche molta polizia che cerca di rallentare il traffico. Attraversiamo incuriositi per vedere che sta accadendo e, dopo pochi minuti di attesa, appare un corteo di nere auto di rappresentanza che procedono piuttosto lentamente. Nelle prime due ci sono alcuni uomini e donne in abito da cerimonia, ma sulla terza … beh, non sono un gran lettore di cronache mondane, ma i due tizi seduti sul sedile posteriore sono indiscutibilmente la Regina Elisabetta e consorte. Siamo tutti fulminati. Mia zia, contrariamente al suo solito, non ha parole, ma decide ugualmente di fare qualcosa, e fa ciò che qualsiasi italiano degno di questo nome avrebbe fatto in una simile circostanza: agita la manina e saluta. Ed ecco il miracolo. L'anziana signora alza la sua regale mano e saluta a sua volta, poi sparisce nel traffico cittadino. Chiaramente il saluto era impersonale e non certo diretto a mia zia, ma non proviamo nemmeno a farne accenno, perché da quel momento il gesto diviene concordemente “il saluto della regina alla zia Franca”. Nel frattempo proseguiamo la passeggiata, anche se la mente di molti è altrove, inoltrandoci per Belgravia, un suggestivo quartiere costituito da una serie interminabile di palazzi completamente bianchi con imponenti colonne sulle facciate. Di qui giungiamo in Sloane Square, piazza che è la porta di Chelsea e dalla quale parte la mitica King’s Road, la strada in cui nacque la “Swinging London” degli anni ’60.
Qui inizia uno shopping sfrenato di cose inutili a prezzi stratosferici.
E’ curioso come ogni volta che mi capiti di incontrare qualcuno che è appena tornato da un viaggio all'estero, vengo sempre ammaliato da racconti di cose stupende comprate per due soldi in negozietti sconosciuti. Per intenderci 'quei posti che solo i locali conoscono, mica le solite trappole per turisti!'
A me questi posti fantastici non è mai capitato di trovarli, il che mi porta a due possibili conclusioni: o gli altri sono molto più bravi di me, o vengo preso sistematicamente per il culo.
Propendendo più per la seconda ipotesi, ho iniziato a rendere pan per focaccia, così ora, quando mi capita di riportare qualche ricordino da un viaggio, dico sempre che non ho speso nulla, che ho trovato qualche artigiano che mi ha lavorato l'oggetto davanti accontentandosi di una manciata di spiccioli o altre idiozie di questo genere. Riesco sempre a fare colpo.
Prima di rientrare alla base, il gruppo vuole vivere un’avventura tipicamente londinese. Bere una birra in un pub.
Dopo le abituali indecisioni sulla scelta del locale, finalmente ne troviamo uno che sembra mettere tutti d’accordo. Una volta entrati, però, contrariamente alle nostre attese, veniamo accolti da un insolito silenzio. Percorriamo tutta la sala alla ricerca di un tavolo libero, ma continuiamo ad essere stranamente osservati dagli avventori. Prendiamo la cosa come la solita curiosità verso gli stranieri, anche se siamo in un quartiere molto frequentato dai turisti. Arrivati in fondo al pub, però, a mia madre scappa un urlo. Attaccato sul muro c’è un calendario piuttosto esplicito di uomini nudi. La situazione si fa all’improvviso chiara. Ci voltiamo all’unisono: i clienti sono tutti maschi, ed alcuni si tengono mano nella mano. Siamo in un locale gay. Dubitando che la novità possa eccitare i miei conformisti genitori, in silenzio, ci facciamo strada verso l’uscita e, sempre seguiti da una moltitudine di sguardi incuriositi, ci eclissiamo.
Intanto, le tenebre sono già calate … assieme alle forze degli irriducibili ‘vecchietti’.
Troppe emozioni in questa giornata, così ci concediamo un taxi per raggiungere l’albergo, dove ci attende la mia amica Giorgia, residente a Londra da quindici anni, che ha invitato noi più ‘giovani’ ad un party serale. Vi parteciperemo io, Miriam, Angela e Barbara. Mio fratello e la moglie, accompagneranno a cena i miei genitori e mia zia.
“Mi raccomando, mettetevi eleganti” lancia lì Giorgia con nonchalances appena ci incontriamo.
La guardiamo tutti inebetiti.
“Come eleganti?!” accenna Miriam atterrita.
"Non avete proprio niente di elegante?" insiste Giorgia.
"No che non ce l'ho, - protesto io - sono venuto con uno zainetto. Quello che indosso è la cosa migliore che ho portato"
Per la cronaca, indosso un maglione pesante in lana d’Aran, un paio di pantaloni verde militare con tasconi laterali e scarponcini stile trekking.
"Dai non fa niente, gli inglesi sono molto informali, sono sicura che nessuno ci farà caso"
Con questa allettante prospettiva ci prepariamo a partecipare al nostro primo party in terra d’Albione.
Giorgia, giusto per metterci ulteriormente in difficoltà, si presenta con un vestitino da sera nero incredibilmente scollato.
La festa si svolge a Maida Vale, un quartiere che non avevo mai sentito nominare prima d’ora, nella casa di un tale Max, direttore di banca appena trasferito a Londra, che ha organizzato la serata per conoscere un pò di gente nuova. Sembra che qui si usi molto.
L'appartamento è al piano terra di una bellissima casa vittoriana. Il salone, situato sul lato posteriore dell’abitazione, si apre con una grande vetrata su uno stupendo parco privato, di gran lunga più grande di qualsiasi parco pubblico della mia città, illuminato con graziosi lampioncini.
Entrati in casa, i timori legati al nostro abbigliamento si dissolvono immediatamente. Non possiamo certo affermare di essere i più eleganti, ma sicuramente i più coerenti in fatto di accostamento di colori e stili. Vige, infatti, una certa anarchia generalizzata ed è difficile riuscire a cogliere il criterio che ha ispirato l'abbigliamento dei presenti.
Rinfrancati dalla scoperta, facciamo un rapido giro d'orizzonte, dopo il quale, però, iniziamo a maturare un altro tipo di preoccupazione: nonostante i nostri sforzi non vediamo nessun cibo in esposizione. C'è infatti una lunga tavolata piena di ogni genere di bevande, tutte rigorosamente alcooliche e qualche nocciolina sparsa qua e là, ma di cibo vero e proprio neanche l'ombra. Giorgia mi aveva detto che di solito in queste feste gli invitati portano da bere ed il padrone di casa si occupa del companatico, ma evidentemente il nostro Max, da buon bancario, non vuola intaccare le sue finanze appena arrivato in città.
Cominciamo a rimpiangere di non avere seguito i ‘vecchietti’ a cena.
Come è ovvio immaginare, dopo un'oretta sono già piuttosto brillo. Per fortuna anche il resto della compagnia è sulla buona strada e le conversazioni, per quello che posso capire, sono alquanto scoordinate. Che tipo di conoscenze si possano fare in queste condizioni non saprei proprio dire, ma, visto che Giorgia ci ha subito mollato per mostrare le tette, in modo molto democratico, a tutti gli ospiti maschi, mi metto a cercare qualche persona sufficientemente ubriaca da riuscire a comprendere il mio inglese.
Dopo qualche tentativo andato a vuoto, riesco ad attaccare discorso con una tizia che indossa un inverosimile abito da gran sera che non avrebbe sfigurato in un ricevimento a corte. Miriam e Angela la guardano inorridite. Nel frattempo, un micidiale CD delle Spice Girls (pare riunitesi per l’occasione), sparato a tutto volume nella sala da un mega impianto stereo, non favorisce certo la nostra conversazione, ma mi pare di capire che la mia dama sia una qualche cugina di provincia del padrone di casa che, avendo probabilmente equivocato sulla natura dell'invito, ha un pò esagerato con la sua toeletta. Il bello è che nessuno sembra farci caso!
Mentre la mia noiosissima interlocutrice mi rende edotto sulle condizioni atmosferiche che hanno caratterizzato l'ultimo mese nel sud-est della Gran Bretagna, il mio sguardo furtivo, approfittando dell’assenza di mia moglie, si sofferma su una procace brunetta che sembra una delle ospiti più gettonate della serata. Appena il suo occasionale compagno si assenta per andare a dissetarsi o semplicemente si distrae un attimo, viene subito soppiantato da un'altro ospite in agguato. Indossa dei pantaloni neri attillatissimi, retti (si fa per dire) da un paio di bretelloni anch'essi neri che spiccano su una maglietta elasticizzata bianca. In effetti quello che maggiormente spicca è ciò che la maglietta cerca a fatica di contenere. Un seno ragguardevole, che avrebbero fatto insorgere qualche dubbio al conterraneo Newton nell'enunciazione della sua legge, è l'argomento che, a giudicare dagli sguardi, i suoi interlocutori sembrano interessati ad approfondire.
Mentre sono intento a studiare il fenomeno, una voce alle mie spalle mi interroga in perfetto italiano.
"Anche tu stai guardando BT?"
"Scusa? Chi è che starei guardando?"
"BT. Lei pensa che la chiamiamo così perché lavora alla British Telecom, ma in realtà vuol dire ‘Big Tits’. Se gli sguardi di tutti gli uomini presenti in sala lasciassero una scia ... sai, come i raggi laser, l'unico bersaglio inquadrato sarebbero le sue tette"
E’ una ragazza piuttosto carina, magra e dai movimenti nervosi. Il suo caschetto di capelli biondi la fa sembrare più giovane di quanto debba essere.
"Stavo solo guardandomi in giro – mento spudoratamente - Chi sei? Un'amica di Giorgia?"
"Si, ci conosciamo da molto tempo, ma non sono italiana. Sono svizzera"
Questa puntualizzazione mi lascia un pò infastidito.
"Come mai una svizzera che parla italiano si trova a Londra" dico con una punta di ironia.
"Non parlo solo italiano, anche inglese, francese, tedesco e russo. Faccio l'antiquaria e passo il mio tempo tra Londra e Nizza" risponde col chiaro intento di colpirmi.
In realtà sono colpito sul serio, ma non voglio darlo a vedere.
"Hai un negozio qui a Londra?"
"Si, faccio riferimento ad un negozio in Mayfair, ma non sono la titolare. Io sono una free lance"
"Accidenti! E che cosa fa di preciso una free lance dell'antiquariato?"
"Vado in giro per il mondo a trattare partite o singoli pezzi per le ditte che me lo richiedono. Prendo una percentuale sugli affari conclusi"
"Si deve guadagnare bene"
"Non mi posso lamentare. In realtà la parte maggiore dei miei guadagni mi deriva dalle consulenze. La mia specializzazione è l'arredo di interni"
"Questa casa l'hai arredata tu?" dico, pensando di farle un complimento.
"Scherzi? L'arredamento di questa casa è un vero schifo!"
Che cavolo, a me non sembra poi così male. Le devo far conoscere mia moglie, sicuramente andranno d’accordo.
"Perché, che cos'ha che non va?"
"Prendi i quadri, ad esempio, sono tutti delle croste. E poi, quei mobiletti buttati qua e là solo per riempire dei buchi! Le poltrone ed i divani sono orribili e sistemati male ..."
Come al solito ho posto la domanda sbagliata. Caschetto biondo, infatti, parte in quarta a distruggere sistematicamente quella splendida casa. Per fortuna dopo poco arriva mia sorella.
Ne ho abbastanza di quel party. Sono stanco, ubriaco ed incredibilmente affamato. In più mi sta venendo un istinto irrefrenabile di fare in mille pezzi il CD delle Spice Girls che continua imperterrito a martoriarmi il cervello.
Dopo aver recuperato i parenti e salutato Giorgia, ci facciamo chiamare un taxi e, barcollanti, abbandoniamo Max al suo destino.
3° Giorno
La mattina di buon’ora siamo tutti in piedi. L’aereo riparte nel primo pomeriggio ed abbiamo poche ore per fare gli ultimi giri.
Il gruppo stavolta si sfalda in partenza. Ci sono i neofiti di Londra che vogliono espletare le ultime pratiche da bravi turisti. Andranno a Portobello e poi a vedere il cambio della guardia a Buckingham Palace. Noi più pratici della città, ci dedicheremo a percorsi un pò meno usuali. La nostra prima tappa è Canary Wharf a Docklands. Il nuovo e fantascientifico tratto della Jubilee Line ci deposita in un baleno nella stazione progettata (neanche a dirlo) da Norman Foster. Gli architetti si fermano a dare un’occhiata al quartiere e al gigantesco, quanto inutile, Millenium Dome, io proseguo per Greenwich. La mia passione per la vela, fa di questa meta una specie di pellegrinaggio. Pregusto già l’emozione nel mettere piede in questo santuario della tradizione navale inglese. Rimango rapito davanti al Gipsy Moth IV, vero e proprio guscio di noce su cui Sir Francis Chichester nel 1967 fece il giro del mondo in solitario, ed affranto davanti al disastro dell’imponente Cutty Sark, uno degli ultimi velieri che facevano rotta per le indie, ridotto in cenere nella sua quasi totalità da un recente incendio. Non ho però il tempo per commuovermi. Ho una meta più importante. Devo assolutamente visitare il National Marittime Museum. Passo in rassegna le sue sale piene di dipinti, oggetti, modelli, che ripercorrono la storia della navigazione dagli albori ai giorni nostri e mi fermo ipnotizzato davanti all’uniforme che Lord Nelson indossava nella battaglia di Trafalgar, ancora sporca di sangue.
All’uscita, affronto la salita che mi porta all’Old Royal Observatory. Sopra questo fabbricato passa il ‘meridiano fondamentale’, quello che determina la misurazione del tempo in tutto il mondo.
Giungo in cima alla collina, boccheggiante, giusto per scoprire che l’ingresso è a pagamento. Non ho tempo per fare la fila, così torno sui miei passi.
A metà discesa incontro due italiani che mi chiedono col fiatone.
“Com’è?”
“Si paga” è la mia lapidaria risposta.
Tanto basta per farli desistere. Si voltano e proseguono con me la discesa.
Mentre mi avvio alla metropolitana, mi volto per un ultimo sguardo. Sono contento. E’ stato un viaggio breve. E’ stato un viaggio folle. E’ stato un viaggio emozionante.
Londra … val bene una messa!
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